Open data: il workshop di LibreOffice

Foto: Niccolò Caranti

Libertà di usare, riusare e ridistribuire, questi sono i tre ingredienti fondamentali che servono per creare gli open data. Con questa definizione, Sonia Montegiove, presidente di LibreItalia, ha aperto il workshop “Strumenti open source per il giornalismo: come usare gli open data”.

Sebbene in Italia ancora manchi una vera cultura della condivisione dei dati, nel mondo del giornalismo e della comunicazione cresce la consapevolezza che gli open data siano strumenti d’importanza strategica. I dati nudi e crudi non bastano, “c’è bisogno di cucinarli” dice Sonia Montegiove. Cucinare i dati significa innanzitutto capirli, contestualizzarli all’interno di una visione più ampia e complessa per poter procedere poi a strutturarli. Per strutturare i dati, la presidente di LibreItalia non poteva che presentare le funzionalità di Calc, il software per i fogli di calcolo di LibreOffice. “Il formato da utilizzare – spiega – è il .csv e non il più famoso .xls, in quanto quest’ultimo è un formato chiuso, dunque non ha senso usarlo per la condivisione di open data”.

Il foglio di calcolo di LibreOffice è utile soprattutto per il trattamento e la strutturazione di dati numerici complessi, così come è utile un altro strumento gratuito e aperto come OpenRefine, originariamente sviluppato da Google sotto il nome di Google Refine. Assieme a questo software, Alfredo Parisi ne presenta altri due, disponibili online gratuitamente per l’elaborazione di grafici, ossia Plotly e Datawrapper, quest’ultimo particolarmente veloce e intuitivo da usare su dati già ben strutturati. Infine Mapbox, free e online come i due precedenti: questo software, come si può intuire, è utile quando si intende creare una mappa con i dati che sono stati lavorati.

L’ultimo a intervenire è Italo Vignoli, fondatore di LibreOffice. che spiega come il problema, in Italia, sia la totale mancanza di insegnamenti sulle licenze e formati dei file. Tutto ciò genera grande confusione. Ad esempio, per quanto riguarda le licenze, non siamo abituati a specificare il tipo di licenza con cui pubblichiamo un qualsiasi contenuto. Questo rende inutilizzabili, in linea teorica, i contenuti perché in mancanza di una licenza siamo obbligati a contattare direttamente il proprietario della risorsa. Insomma, un gran macello: se ogni volta per utilizzare una foto, un file audio, un video, ci fosse davvero il bisogno del permesso scritto di chi lo ha caricato, la condivisione morirebbe ancor prima di nascere.

Eppure la soluzione al problema esiste, è semplice, ed è sotto gli occhi di tutti: le licenze Creative Commons. Nate negli Stati Uniti, sono sei tipi diversi di licenze, delle quali la CC0 è la più aperta di tutti, quella che consente la riutilizzazione dei contenuti citando semplicemente l’autore. Eppure talvolta, sopratutto nelle istituzioni governative, si incontrano delle resistenze, molte amministrazioni pubbliche non vogliono rilasciare i propri documenti con licenza CC, in quanto vogliono attribuirsi tutti i diritti sui contenuti rilasciati: “Probabilmente chi fa così, all’interno dei governi e delle istituzioni pubbliche, non ha letto le licenze Creative Commons. Se le leggesse capirebbe che i suoi diritti sarebbero più tutelati dall’uso della licenza piuttosto che dal suo non-uso. Purtroppo, in quest’aerea specifica, l’ignoranza delle leggi e dei riferimenti è un dramma, a tutti i livelli”.

E il giornalismo in tutto questo? Si parla spesso dell’autoreferenzialità del giornalismo italiano, dello scarso uso dei link esterni come strumento per citare altri contenuti, quasi non si volesse regalare un pugno di views in più ad un sito concorrente; dall’altra parte invece spesso si considera il riutilizzo degli articoli esterno al sito come una violazione del diritto d’autore. Vignoli è caustico a riguardo: “Il diritto d’autore in realtà non c’entra niente col Creative Commons. Le licenze CC permettono semplicemente agli articoli di diventare delle fonti utilizzabili da chiunque”.

I collegamenti ipertestuali sono il motore del web, senza collegamenti la cosiddetta “rete” cessa di esistere. Ai tempi di internet le vecchie licenze restrittive sono inadeguate, non permettono una citazione efficace e limitano la condivisione della conoscenza. Come lo stesso Vignoli ha ricordato, è ormai finito il tempo dell’innovazione “chiusa”: se un tempo lavorare al riparo delle mura di una azienda garantiva i migliori risultati, col web il risultato ottimale lo si ottiene condividendo e collaborando; chi non condivide inevitabilmente rimane indietro, in quanto si trova a combattere con armi impari.

La chiosa di Vignoli è significativa e ben riassume la direzione verso la quale ci stiamo muovendo: “Le aziende ora non dicono più che i migliori lavorano tutti per loro, bensì con loro”. Il futuro del giornalismo è sul web e, inevitabilmente, il futuro del giornalismo sarà più open che mai.