Protezione, privacy e diritto all’oblio: come proteggere vittime e soggetti deboli

Il giornalista nel suo lavoro può diffondere informazioni su bambini, persone deboli o appartenenti a particolari categorie in relazione a salute o condizioni personali. La cronaca offre ogni giorno titoli accattivanti e foto provocatorie per raggiungere il maggior numero possibile di click o di condivisioni dei contenuti, il lettore viene incuriosito e, allo stesso tempo, tratto in inganno. La diffusione fuorviante di notizie danneggia in primo luogo coloro che ne sono i protagonisti. Spesso vittime di violenze o discriminazioni, rischiano di divenire vittime una seconda volta, per mano dei cronisti o di lettori poco attenti e per nulla sensibili.  Nella legislazione, specie di derivazione europea, e nelle carte deontologiche si intrecciano dovere di cronaca, libertà di manifestazione del pensiero e tutela della privacy. L’entrata in vigore del regolamento GDPR (2016/679) ha richiamato l’attenzione di professionisti e utenti su questi temi delicati.

Mercoledì 3 aprile, nella prima mattinata del Festival, le giuriste Stefania Stefanelli e Silvia Martinelli hanno affrontato questi temi nell’ambito del ciclo “Law & Order”, con un approfondimento dal titolo “La protezione, la privacy e il diritto all’oblio dei soggetti deboli e vulnerabili e delle vittime di reato”. L’avvocato Stefania Stefanelli, docente di diritto privato all’Università di Perugia, ha presentato alcuni casi in cui le vittime di reati o discriminazioni sono state colpevolizzate dai contenuti diffusi dalla stampa o dalle modalità di diffusione stesse.

Era il marzo 2016 quando i media italiani riportavano i drammatici fatti dell’omicidio di Luca Varani. Due ragazzi lo uccisero con un centinaio di colpi inferti con un’arma da taglio e dei martelli, dopo avergli somministrato delle sostanze stupefacenti che lo resero inerme. Uno dei due carnefici morì suicida prima della condanna, l’altro fu condannato in appello a trent’anni di reclusione con pena aggravata dal “movente spregevole, rivelatore di un elevato grado di perversione” come recita la sentenza. Ciò che fa inorridire non sono solo le modalità di questo efferato delitto, ma anche il risalto che ha avuto sui mezzi di informazione. La stampa parlò dell’episodio come il risvolto della “torbida Roma gay” e la vittima venne accusata di condurre una doppia vita, diviso tra la fidanzata e le conoscenze nell’ambiente omosessuale.

Ancora, tutti ricordano il caso Marrazzo. L’allora presidente della regione Lazio venne filmato da alcuni agenti delle forze dell’ordine mentre era in compagnia di una transessuale, video che fu poi mezzo di ricatto. Gli agenti vennero condannati a 10 anni per concorso in concussione e rapina. Leggendo le righe dei giornali saltano subito all’occhio termini come “ricatto per video hard” o “atteggiamenti compromettenti”, che colpevolizzano Marrazzo più che i suoi ricattatori.

Quali sono i rimedi a disposizione per questo genere di illeciti? Innanzitutto, spiega Stefania Stefanelli, in questi casi viene in soccorso la disciplina del reato di diffamazione (art 595 c.p.), che va però bilanciato con la libertà di manifestazione del pensiero, tutelata dalla Costituzione. Il reato di diffamazione viene meno quando ricorrono tre requisiti evidenziati dalla giurisprudenza: verità, pertinenza e continenza, dove verità si traduce nella verifica delle fonti, mentre pertinenza significa che la notizia deve essere portatrice di un interesse generale alla sua conoscenza, alcuni indicatori della presenza di interesse pubblico possono essere la notorietà della persona coinvolta o il carattere penale dei fatti presi in considerazione. Il terzo requisito elaborato dalla giurisprudenza, infine, attiene alla forma con cui la notizia viene divulgata. La continenza riguarda prima di tutto il contenuto, ma non solo, investe anche gli aspetti grafici della diffusione dei fatti, specie per quanto riguarda il web. “Specialmente quando si tratta di stampa via web sono importantissimi il titolo e la fotografia – sottolinea l’avvocato Stefanelli – perché sono quelli che vengono valutati dai lettori più frettolosi”, che approfondiscono i contenuti che scorrono sui propri smartphone.

Un altro profilo di imputabilità riguarda il trattamento dei dati personali eventualmente divulgati dalla notizia. L’art 82 del GDPR disciplina i tre elementi costitutivi della responsabilità civile riguardo tale categoria di dati: deve trattarsi di un trattamento illecito, la divulgazione dei dati deve aver provocato un danno ingiusto, dove tale danno si intende sia come materiale sia come morale. La professoressa Stefanelli cita ancora una volta i casi Varani e Marrazzo, sostenendo che i casi ricordati in precedenza sono chiaramente lesivi della riservatezza delle persone coinvolte e integrano un illecito trattamento dei dati personali, per i quali la norma di riferimento del GDPR è l’art 9, che riguarda quelli che una volta erano definiti dati sensibili, oggi appartenenti a categorie particolari (per esempio dati relativi a salute o vita sessuale).

Quando può il giornalista allora diffondere questo tipo di notizie? Nel novembre 2018 l’Autorità garante per la protezione della privacy ha approvato alcune regole deontologiche, dalle quali emerge in prima linea il criterio dell’essenzialità dell’informazione, da bilanciare con la tutela della dignità e della riservatezza del soggetto coinvolto. Quando si tratta di minori, le cautele aumentano e il primo documento a cui far riferimento è la Carta di Treviso, la quale sancisce che ogni notizia diffusa relativa a un minore deve essere nel suo specifico interesse. Un esempio è stato trattato dalla Cassazione: i giornali hanno pubblicato i nomi dei fratelli di un bimbo morto a causa di una patologia ereditaria, affermando che anche loro ne fossero portatori. I giudici hanno riconosciuto in questo caso un illecito, che fonda l’obbligo di risarcimento del danno.

E se le notizie vengono diffuse tramite il web? Stefania Stefanelli ricorda il caso di Silvia Romano, la giovane volontaria italiana rapita lo scorso novembre in Africa. Sui social la diffusione di questa tragica notizia scatenò commenti diffamatori del tenore di “Doveva starsene a casa sua”. Di tali affermazioni rispondono gli autori in prima persona, quando è possibile identificarli. Il gestore della piattaforma web, dal canto suo, concorre nel delitto di diffamazione solo se ha mantenuto consapevolmente l’articolo sul suo portale. Incorre inoltre in una responsabilità quando, dopo aver ricevuto comunicazione della autorità competente in merito alla manifesta illiceità del contenuto pubblicato, non abbia agito prontamente per la sua rimozione (dlgs 70/2003). L’avvocato Stefanelli sottolinea come la prontezza dell’azione sia essenziale sul web, dato il carattere virale che possono assumere i contenuti illeciti, per cui diventa quasi impossibile arginarlo per sempre.

Sulla responsabilità del provider si sofferma anche Silvia Martinelli, dottoranda dell’Università degli Studi di Torino, avvocato e membro del centro di ricerca Information Society Law Center di Milano. Quella dell’hosting provider è una categoria molto discussa, dove il riferimento viene fatto a quelle piattaforme web che consentono la pubblicazione di contenuti anche agli utenti come i social network: come definire le responsabilità in questi casi? Di base, viene esclusa la responsabilità del titolare del sito, il quale non ha un obbligo di sorveglianza attiva sui contenuti. Nel caso in cui venga effettivamente a conoscenza della presenza di un contenuto illecito, però, deve attivarsi per porre in essere ogni misura possibile. Il decreto legislativo 70/2003 si riferisce alla direttiva europea sul commercio elettronico del 2000, alla quale fa riferimento Silvia Martinelli , sottolineando come nel frattempo la tecnologia abbia fatto molti passi avanti e alcuni problemi come quello delle fake news o del cyberbullismo siano oggi sempre più sentiti. Fin dal tempo dell’emanazione della norma, però, si è cercato di attribuire qualche tipo di responsabilità ai provider, specie quando l’identificazione dell’autore del contenuto illecito è complessa. La giurisprudenza ha affermato in più occasioni l’assenza di responsabilità per questi soggetti, ma l’orientamento iniziale ha subito delle evoluzioni, con riferimento a normative specifiche.

Nel caso Delfi vs. Estonia, dove il soggetto è stato vittima di insulti contenuti nei commenti ad un articolo di giornale, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha affermato che il portale non poteva non accorgersi della natura dei commenti in oggetto, molto più numerosi rispetto al normale numero di interazioni sul sito. In questo caso venne comminata una sanzione di poco più di 300€ per la mancata rimozione dei contenuti illeciti. Una misura esigua, ma che costituì una prima breccia nell’orientamento sul tema.

Casi come questo nel tempo hanno dato origine a una serie di riflessioni, in particolare, spiega l’avvocato Martinelli, sta iniziando una nuova visione nella quale, soprattutto per temi complessi come fake news e hate speech, si chiede un intervento delle piattaforme. Anche la Cassazione italiana con un recente intervento ha iniziato ad introdurre alcuni elementi di responsabilizzazione dei provider, infatti sia che si tratti di provider web, sia in generale con riferimento a qualunque contenuto pubblicato, l’art 17 GDPR riconosce il diritto dell’interessato ad ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione del dato illecito.

Silvia Martinelli si sofferma poi sui profili del diritto all’oblio: “Ovvero nel caso della pubblicazione vi è un’improvvisa notorietà che illumina un soggetto, che improvvisamente si vede al centro dell’attenzione del pubblico e che in un secondo momento potrebbe voler riaffermare il suo diritto a rientrare nell’anonimato”. “Il diritto all’oblio nasce come divieto di nuove pubblicazioni, ma ora con internet si pone come problema costante in quanto generalmente le pubblicazioni rimangono online”. Il soggetto interessato può avanzare una richiesta di cancellazione dei contenuti, che però soccomberà di fronte ad eventuali altri interessi prevalenti, come l’esercizio della libertà di espressione e informazione o l’archiviazione ai fini di pubblico interesse come ricerca storica e scientifica. Tali diversi interessi devono avere carattere attuale, questo significa che la loro valutazione deve essere riferita al momento della richiesta di cancellazione.

Il GDPR afferma anche il diritto di rettifica e aggiornamento (art 16), già disciplinato dalle normative preesistenti. “La rettifica che già conoscete viene ad avere un’applicazione ulteriore”, spiega Martinelli, infatti, mentre prima tale diritto era applicabile solo con riferimento alle testate giornalistiche, ora è possibile rivendicarlo per qualsiasi tipo di trattamento dei dati personali.

In conclusione, l’avvocato Martinelli specifica come sia importante selezionare le informazioni al momento della pubblicazione, ponendo attenzione anche alla normativa sulla privacy e avendo cura delle modalità di presentazione dei contenuti. Anche in un momento successivo, però, non bisogna dimenticare che l’oscurazione di un dato può essere disposta prima della richiesta dell’interessato. Questo caso riguarda in particolare l’eliminazione di tutte le informazioni che non sono più necessarie, la loro de-indicizzazione (agendo, cioè, sui motori di ricerca, diminuendo la visibilità delle informazioni stesse) o l’inserimento ex post di aggiornamenti sulla vicenda.