Cosa ci fanno sullo stesso palco il conduttore di Gazebo e il direttore della comunicazione di Medici Senza Frontiere Italia? Non c’è altra risposta se non che è il giornalismo a permetterlo, con la sua libertà di espressione e la possibilità che dà di scegliere sempre nuove forme di informazione. Diego Bianchi e Francois Dumont sfruttano tutti i giorni le potenzialità del mezzo comunicativo in modo molto simile e mossi dagli stessi intenti, così che ne è sorta una naturale collaborazione.
Medici Senza Frontiere infatti è un’organizzazione umanitaria formata non solo da un team di medici ma anche da una importante squadra di comunicazione e di giornalisti. All’azione medica si accompagna dunque quella di denuncia pubblica. E Bianchi, in arte Zoro, è proprio quel tipo di giornalista che fa al caso loro: Dumont lo ha definito innovativo, diverso, adatto a raccontare situazioni difficili. I linguaggi di comunicazione, di storytelling che entrambi utilizzano per raccontare le crisi umanitarie, hanno oramai il loro preciso marchio di fabbrica che funziona e che piace tanto al pubblico.
I due giornalisti hanno mostrato alla platea della Sala dei Notari che cosa fanno e come, proiettando una serie di spezzoni di loro reportage. È sabato mattina e la sala sembra quasi risentire i postumi del live di Gazebo: la verve che caratterizza il programma si è esaurita la notte precedente ed è rimasta invece la serietà e professionalità del conduttore.
Il primo reportage è su di un uomo afghano bloccato con la famiglia al confine greco-macedone: MSF vuole raccontare di immigrazione attraverso le storie particolari, il punto di vista dei singoli. Poi è il turno di Bianchi e del suo reportage dall’ospedale di MSF in Giordania, realizzato un mese dopo il bombardamento del centro traumatologico, sempre di MSF, a Kunduz: una semplice partita a biliardino con alcuni pazienti dell’ospedale, ma se non avesse specificato che si trattava di uomini affetti da gravi traumi fisici a fatica si sarebbe notato, perché il messaggio di fondo è che siamo tutti uguali, abbiamo solo storie diverse che però non ci rendono diversi. Un altro filmato è ambientato a Roma, di cui si riprendono prima le sue bellezze artistiche e a cui succedono riprese di tutt’altro genere, dei campi rom, la cui bellezza risiede solo fra i volti dei suoi abitanti, i sorrisi dei bambini (perché sì, i bambini sono ovunque, e per Zoro non riprenderli non solo sarebbe impossibile ma significherebbe omettere una fetta importante di quella realtà, fare giornalismo a metà).
L’impatto già col primo video è forte e il religioso silenzio che domina l’evento ne è un evidente segno. Viene proiettato poi uno spot della campagna MSF, Milioni di passi, per ricordare che 59,5 milioni di persone nel mondo sono costrette a fare milioni di passi per sopravvivere alla ricerca di un posto sicuro. Dumont spiega che si tratta di un tentativo che mira a creare empatia con le persone, perché è l’ingranaggio che potrebbe mettere in moto una reazione, una presa di coscienza di ciò che accade in parti del mondo lontane dal nostro paese che però ci riguardano, e ci riguardano in prima persona, perché l’unica cosa che ci tutela dal pericolo di incorrere in quelle situazioni critiche è il fatto di vivere in un posto più sicuro. Creare empatia significa fare in modo che la loro storia diventi un po’ la nostra.
Safe passage è un’altra iniziativa ancora di MSF che punta a ottenere passaggi legali e sicuri subito per i migranti. La domanda chiave è: “che cosa scriveresti sul tuo giubbotto di salvataggio?”. E le risposte hanno portato alla creazione di una vera e propria comunità solidale, anche se la sfida più grande, per lo meno secondo Bianchi, è quella di riuscire a realizzare il cambiamento, quello di opinione da parte di quanti rispondono negativamente non cogliendo il senso degli intenti. I servizi scelti per concludere – La ruta de los refugiados e quello di Gazebo a Idomeni, al confine tra Grecia e Macedonia -, richiamano invece l’innovazione che sta avvenendo nel modo di far notizia, perché si tratta di video a 360 gradi, che forniscono una visuale completa dei luoghi delle riprese e servono a scoprire che tipo di impatto può avere questa modalità sulle persone.
Irremovibile insomma resta la voglia di raccontare storie, sempre in costruzione invece è il modo in cui si fa, e la collaborazione non può e non deve mai mancare.