Raccontare la paura

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In un’epoca in cui l’immagine è tutto, la fotografia gioca un ruolo fondamentale nel racconto della realtà. Verte su questo il panel “Identità e memoria”, che vede protagonista il fotogiornalista freelance Matteo Bastianelli, con la moderazione del giornalista Alessio Jacona, durante questa dodicesima edizione del Festival del Giornalismo.

Da poco rientrato da un lungo viaggio in Yemen, durante il quale si è occupato di un photo-reportage ancora inedito, Bastianelli presenta al pubblico tre sue inchieste o come preferisce definirle lui, tre sue storie, che ha collezionato e “imprigionato” con i suoi scatti e le sue riprese. Si tratta di tre racconti, in un modo o in un altro, collegati al tema della guerra.

La guerra congelata.

“Una delle cose che mi piace molto, la cifra del lavoro di Matteo, che mi ha colpito tantissimo quando ho studiato quello che veniva a raccontare qui, è la sua capacità di andare a raccontare il passato partendo dal presente”.

È così che Jacona introduce la prima storia immortalata da Bastianelli: una storia dimenticata da molti, nonostante le cicatrici visibili e invisibili che ha lasciato non solo sulle città ma, soprattutto, sulle persone. Si tratta della guerra Bosniaca che il fotografo confessa di conoscere dall’età di sette anni e che ha racchiuso in un suo progetto con un documentario e un libro, “The Bosnian Identity”.

“È l’interpretazione di cose che ho vissuto e di altre cose che non ho vissuto per motivi anagrafici, perché non c’ero. Ero un ragazzino quando c’era questa guerra, la sentivo al telegiornale (…) quando è iniziata la guerra in Bosnia, nel ’92, ero un bambino, avevo sette anni. La Bosnia l’ho sempre percepita come il Bronx. Sono quei luoghi che dici ‘ci devo andare, devo superare l’idea che è un luogo inaccessibile, che ti spaventa’. (…) è stato un viaggio importantissimo per capire anche l’importanza della paura di dimenticare”. Proprio sulla parola paura Bastianelli decide di costruire il  racconto della sua esperienza. Le paure di cui parla sono due: la prima, comune un po’ a tutti i suoi reportage, è quella interiore; la seconda quella del popolo bosniaco che non dimentica, ma teme invece che il resto del mondo lo abbia già fatto.

Bastianelli non può spiegare bene come abbia superato questa sensazione poiché crede che ognuno abbia dei segreti,  la chiave per estraniarsi e sentirsi meno vulnerabile. Tuttavia, il primo passo per vincere la paura, almeno nel suo caso, è stato quello di affrontarla. Così il viaggio in Bosnia lo ha fatto per il senso di responsabilità sia personale sia legato all’etica giornalistica, per il bisogno di non accontentarsi, di avvicinarsi e capire meglio, e questo ha vinto su tutto il resto. Certe storie non possono non essere raccontate e infatti Bastianelli è pronto a combattere pur di non farsele sfuggire: solo così si può evitare l’oblio. “Il mio percorso è stato quello di entrare in un punta di piedi nelle vite di tante persone e cercare di pormi delle domande e quindi portare avanti un discorso che potesse essere legato al presente, al passato, quindi il collegamento con la memoria”.

Bastianelli così per parlare della storia di un paese e di un conflitto, racconta il popolo in cerca di un’identità nazionale, e, conoscendolo e assorbendo tutto ciò che era in grado di dargli, ha tentato di restituirgli qualcosa: la promessa di non dimenticare.

Il post-bellico.

Il punto di partenza del racconto, per il fotografo, è il singolo con la sua storia: proprio su questo infatti sono fondati tutti i suoi lavori. Ne è esempio anche un altro dei suoi cortometraggi “Maldimare”: il suo video-denuncia sull’inquinamento che da anni logora la città di Taranto. Le riprese mostrano una realtà che lo stesso Bastianelli definisce un mondo post-bellico, post-apocalittico anche se, in realtà, il conflitto non si è mai spento: si parla di una guerra costante per la vita, una guerra non tra popoli, ma combattuta in nome della volontà di liberazione da tutte le sostanze cancerogene che divorano ogni cosa, senza risparmiare nulla. “Maldimare” mette in scena il grande paradosso “vita o lavoro?” che, inevitabilmente, Taranto si trova a dover fronteggiare. “Perché porre un’intera popolazione di fronte alla scelta salute o lavoro? Francamente io ho deciso di raccontare questa storia proprio perché sentivo un senso d’ingiustizia grandissimo nei confronti dei tarantini”.

Ciò che viene presentato dal fotografo con gli scatti e il documentario è doloroso. Lui stesso ammette di non possedere quel distacco “medico” verso ciò che racconta ma, anzi, trova uno stimolo proprio in quel volersi mettere alla prova narrando le brutalità, le mancanze, i dolori reali dei singoli esseri umani: è così che non perde mai la sua umanità e la sua voglia di scoprire nuove storie.

Il conflitto.

E poi, non si sa mai che durante tutti questi suoi viaggi, non conosca qualche amico. Un amico come quel ragazzo che Bastianelli incontrò al confine tra Turchia e Bulgaria su cui poi ha costruito un reportage, “Soul of Syrian”, sulle conseguenze del conflitto in Siria. Un giovane che scappò da Darat con il sogno di diventare fotografo e sfuggire a una guerra che non voleva combattere. Questa è una storia di fuga, di viaggio, di sofferenza, ma ora anche di salvezza: il ragazzo dopo più di tre anni mezzo ha ricevuto finalmente asilo in Germania.

Sul finire della conferenza arriva dal pubblico una domanda riguardante l’etica e l’atteggiamento con cui porsi di fronte al dolore, alla violenza, alla crudezza. Bastianelli non ha dubbi e questa volta risponde con più sicurezza che mai: “Guarda è facilissimo risponderti. Non faccio una foto se non la farei a mia madre, mio padre, mia sorella, una persona a cui tengo, sia in fotografia che nel video. Se non lo farei con i miei familiari non lo farei neanche con gli altri, quindi quello è il limite invalicabile. Non è una questione etica, ma una questione di rispetto per i diritti degli altri.”