“Non mi aspettavo intuizioni folgoranti dalla mia missione nello spazio, né ne ho avute. Non so nulla più di prima sul senso dell’esistenza umana o sulla presenza di vita fuori dalla terra”: così Samantha Cristoforetti scrive nel suo libro, “Diario di un’apprendista astronauta”. Si possono usare proprio le parole della diretta interessata per descrivere l’incontro di venerdì 5 aprile al Teatro Morlacchi di Perugia.
In queste pagine è contenuto un memoir: la storia di Samantha, come sottolinea Silvia Bencivelli, che ha moderato l’incontro. Una storia ricca di avventure, che inizia con un sogno e che però non arriva subito al lieto fine, ma prosegue con tanti anni di studio, impegno e un pizzico di fortuna. Il libro racconta come si diventa un essere umano extraterrestre, con tutti gli errori, i fallimenti e le delusioni del caso: “La storia vera di una persona – afferma Silvia – che si è messa in testa di fare un mestiere un po’ singolare e c’è riuscita”.
Quando ha saputo di essere stata selezionata come astronauta Samantha prestava servizio al 51° Stormo di Istrana ed era in attesa di avere qualche risposta da oltre un anno. “La mia vita era un po’ in sospeso non sapevo cosa sarebbe successo” racconta l’astronauta, ricordando come avvenne la selezione dell’ESA. “Ero davvero in uno stato di tensione estrema, perché erano passate ormai diverse settimane dall’ultimo colloquio avuto a Parigi ed eravamo rimasti soltanto in 10”. Con 8.500 candidati però, all’European Space Agency i posti disponibili erano soltanto 6. “Aspetto ovviamente tutta la giornata – dice Samantha – come ormai faccio da tempo e alle 9 di sera vado a farmi una doccia: al ritorno c’era una chiamata persa da un numero francese”. A rivelarle tutto però fu un’email che la invitava a Parigi, al quartier generale dell’ESA, per una conferenza stampa nella quale sarebbero stati presentati i nuovi astronauti. “E lì è stato uno sciogliersi della tensione accumulata in un anno – spiega Samantha – è stato un momento che non so come descrivere, non ho provato gioia o felicita, ma è stato proprio un sentirmi in pace con me stessa e con l’universo: uno di quegli attimi in cui rimani sospesa nel tempo e non c’è più niente, c’è solo quel momento lì”.
Da quel momento in poi per Samantha era iniziata l’avventura più straordinarie di tutte. Aveva una missione, faceva parte di un gruppo di astronauti chiamato ufficiosamente “Shenaningans” (in italiano “birboni”) e a breve sarebbe partita per lo spazio. Non erano tutti militari, ricorda Samantha, tre di loro erano civili: in totale il gruppo era formato da 6 astronauti, di cui 4 piloti, un ingegnere e uno scienziato. Dopo l’addestramento di base durato un anno e mezzo, pieno di studio teorico, la squadra passa a quello pratico all’interno di un simulatore. Qualche anno dopo, nel novembre 2014, Samantha è pronta per volare nella navicella Soyuz e si trova nella capsula in cima al razzo. Il momento prima del lancio del razzo viene ricordato con leggerezza, come racconta Samantha: “È partita così la canzone di Adriano Celentano che intona ‘è inutile suonare qui non aprirà nessuno’”. Sì, perché il suo collega astronauta russo aveva scelto quella canzone, senza sapere l’italiano, ma nonostante ciò loro avevano realmente chiuso tutto il mondo fuori ed erano pronti per rivederlo dall’alto, a 400 km di distanza.
Sulla stazione spaziale Samantha ci restò 7 mesi: mesi di lavoro in un posto neutro, dove non ci sono rivalità tra diversi paesi ma una grande cooperazione. “La vita lassù è molto intensa – racconta l’astronauta – e la giornata lavorativa inizia verso le 7, 7 e mezza, con dei meeting, come una riunione come si fa in ufficio, tra di noi e le persone che gestiscono e pianificano il nostro lavoro, i vari centri di controllo”. I centri di controllo della stazione spaziale internazionale sono sparsi in tutto il mondo: Houston? È solo il più famoso. Poi si va in Europa, in Giappone e in Russia e ognuno di questi centri controlla una parte di stazione spaziale. Conclusi i meeting si inizia il lavoro vero e proprio: “L’attività principale è quella di fare ricerca scientifica o sviluppo tecnologico” ha spiegato l’astronauta, che riguarda quindi “tutte quelle discipline scientifiche che in qualche modo traggono beneficio dal poter fare esperimenti in questa condizione molto particolare, ovvero quella di assenza di peso”. Ma vivendo in una grande macchina, uno dei lavori necessari è la riparazione e la manutenzione preventiva, che ogni astronauta deve saper fare. Nelle giornate particolari invece possono accadere passeggiate spaziali oppure visite, dovute a cambi di equipaggio o veicoli di rifornimenti cargo dalla terra.
Ma da dove nasce l’idea di fare una stazione spaziale che orbita a 400 km dalla terra? “Perché l’esplorazione spaziale credo sia diventata parte di noi, è entrata nella nostra cultura.” E il prossimo passo? Andare in orbita per imparare a vivere, a lavorare, a condurre operazioni in maniera robusta in orbita bassa. Noi italiani, anche se non molti lo sanno, giochiamo un ruolo molto importante sulla stazione spaziale: la nostra industria ha un ruolo di leadership internazionale per quanto riguarda la costruzione di moduli pressurizzati, che vengono fatti a Torino.
“Noi – scrive Samantha – abbiamo un privilegio riservato a pochi: rappresentare l’umanità nello spazio”. Ora in orbita ci sono altre colleghe di Samantha, che sono state vittime di derisioni poiché non sono riuscite a fare la passeggiata spaziale a causa della tuta. “Le tute – spiega Samantha – non sono come un vestito, anche se le chiamiamo tute non sono come quelle del meccanico, ma sono delle piccole astronavi che letteralmente costruisci attorno al corpo delle persone pezzo per pezzo e che poi permettono di sopravvivere al di fuori della stazione spaziale per 6/7/8 ore”.
Al termine dell’incontro Samantha sfata un mito, ovvero quello della preparazione psicologica che sembra essere doverosa prima di affrontare un’avventura spaziale. “Come agenzia spaziale – conclude Samantha – abbiamo il lusso di poter scegliere tra tantissime persone che vogliono fare gli astronauti e quindi scegliamo le persone, per quanto si può immaginare al livello di selezione, che sono adatte a quel tipo di vita e di lavoro.” Sfatando così tabù e pregiudizi sui criteri di selezione, continua: “E quindi poi tutta questa necessità di una preparazione psicologica non c’è”. In fondo, per vivere un’avventura basta un po’ di coraggio e la voglia di superare i propri limiti.
Ma la dimensione dell’avventura per Samantha non è una cosa capitata per caso: lei ha ricercato questa dimensione che ha amato sin da piccola, quando leggeva le avventure del Corsaro Nero o di Sandokan. “I libri di Salgari li divoravo, leggevo di notte sotto le lenzuola quando non si poteva, leggevo sotto il banco in classe. In particolare la dimensione dell’avventura mi ha accompagnata tantissimo e l’ho ricercata anche nel lavoro, prima come pilota militare e poi come astronauta: avevo bisogno di questa dimensione”.
Diventare astronauta è dunque una scelta che ti porta in un altro mondo, lontano da qui (anche se non troppo), che richiede passione, dedizione e tantissimo studio, ma che ti offre la rara possibilità di diventare un essere umano extraterrestre.