Scanzi e Casale: non è tempo per noi quarantenni (forse)

Foto: Diego Figone

Giovedì primo maggio sul palcoscenico del teatro Pavone hanno calcato la scena il giornalista Andrea Scanzi e Giulio Casale. Scanzi non è solo giornalista de Il Fatto Quotidiano, ma anche attore, scrittore e interprete per il teatro e autore di libri. Casale è il fondatore del gruppo rock Estra e porta in tour in teatro spettacoli dedicati a Gaber e De André; tra le altre cose è anche attore, poeta e cantautore. Scanzi mette subito le cose in chiaro con i propri spettatori: quello a cui stiamo per assistere è un esperimento. Un po’ monologo, un po’ musica, un po’ presentazione del suo ultimo libro: Non è tempo per noi.

Il libro racconta la generazione nata negli anni settanta e del motivo per cui, secondo Scanzi, si tratta di una generazione in panchina, usando un termine calcistico a cui fa riferimento durante la serata.

Scanzi inizia il suo racconto dall’ultimo disco di Gaber, che uscì nel 2001 dal titolo La nostra generazione ha perso. La prima riflessione parte proprio da quel titolo: la generazione di Gaber, quella dei nati tra gli anni ’30 e ’40, ha perso veramente? Non si sofferma sul dibattito che questa dichiarazione scatenò tredici anni fa, ma soprattutto sul fatto che sicuramente non si è trattato di una generazione che ha pareggiato. Tirando le somme tra fallimenti e successi, Scanzi non ha dubbi sul fatto che si sia trattato di una generazione che ha provato a far qualcosa, come le battaglie sulle leggi sull’aborto e sul divorzio, per esempio.

“La mia è una generazione che cerca di cambiare qualcosa, – spiega Scanzi, parlando del pareggio – ma mai fino in fondo, non fino a rischiare il fallimento per tentare di raggiungere i propri obiettivi”.

Ma qual è il motivo di questa stasi? Di questo stare fermi ad aspettare che qualcuno arrivi a salvarci?

Casale inizia ad arpeggiare con la chitarra acustica che tiene appoggiata sulle gambe, seduto sullo sgabello alla sinistra di Scanzi. Partono le note di Non è tempo per noi di Luciano Ligabue (1990).

Perché non è tempo per noi? Perché non ce l’hanno dato quelli più grandi o perché non siamo stati in grado di prendercelo?

A suo parere il sottotesto di questa canzone, come di molte altre di quel periodo è l’autogiustificazione dei propri fallimenti, l’autoassolversi, ammettendo di non essere riusciti a cambiare, a fare qualcosa per il proprio paese, per delle colpe che provengono da entrambe le parti.

La protesta, i messaggi di denuncia sociale che erano tipici dei cantanti come Gaber, De André, Guccini e Graziani subiscono una sorta di slittamento. I cantautori non sono più i portatori di messaggi, il loro posto è stato preso da registi come Nanni Moretti e comici come Paolo Rossi. Negli anni novanta infatti l’idea del cantautore inizia ad associarsi più ad un’idea di intrattenimento che all’ideologia del messaggio, a differenza di quello che accadeva negli anni ’70. Ovviamente Scanzi si guarda bene di fare di tutta l’erba un fascio, tirando fuori dal calderone artisti come gli Afterhours e i Marlene Kunz ad esempio, ma il messaggio che sembra passare è quello di una rabbia annacquata, quasi che i quarantenni di oggi ci provino a cambiare le cose, ma senza mai andare fino in fondo.

Scanzi comunque non vede solo i lati negativi, per questo inizia a parlare della visione di Paolo Sorrentino. La critica che viene spesso rivolta al regista premio Oscar è di non saper raccontare la sua generazione. La realtà è che a Sorrentino non interessa raccontare la propria generazione, perché trova molto più interessante raccontare un mondo passato al quale non ha potuto partecipare, data la prematura morte dei suoi genitori. Per questo l’attore a cui fa riferimento nei suoi film è spesso Toni Servillo, un uomo che potrebbe tranquillamente essere suo padre.

Sulle note di Venderò di Bennato, e concludendo con la parola “libertà” Casale aggiunge: “La libertà è una cosa che dovremmo riprenderci, prima o poi”. Uno scroscio di applausi risuona all’interno del teatro.

Scanzi riprende il discorso raccontando i lutti che hanno caratterizzato la loro generazione. Primo tra tutti, nel giorno del ventennale dalla sua scomparsa, Scanzi cita Ayrton Senna, un ragazzo amato da tutti proprio per la sua fragilità e fenomenalità. Un ragazzo semplice che se n’è andato in modo drammaticamente ingiusto. Molti tifosi di F1 dopo quell’incidente hanno deciso di non seguire più le corse, di voltare le spalle a quello sport.

“Il nostro è un paese che si allontana dai deboli”. Scanzi inizia a parlare Pantani, una storia che a suo avviso è in grado di raccontare molto del nostro paese. Da personaggio idolatrato nel 1998 quando fece doppietta con Tour de France e Giro d’Italia, all’essere rigettato da grande pubblico quando il suo ematocrito è risultato fuori dai parametri al controllo antidoping. Un uomo fragile, che a guardarlo non l’avresti definito un campione se non lo avessi visto scattare sulle salite, che non è riuscito a sopravvivere al fallimento.

Quando Scanzi fa il nome di Troisi dalla platea si alza un sospiro. Troisi è stato l’uomo che ci ha lasciato in eredità due grandi insegnamenti: sorridere bene e non rinunciare mai ai propri sogni, a qualsiasi costo.

Nella parte finale dello spettacolo Scanzi passa all’analisi di quelli che lui definisce match point. A suo avviso ogni generazione ha il proprio match point, ovvero quei punti di svolta in cui sarebbe potuto cambiare qualcosa, ma che per qualche motivo non si è stati in grado di cogliere. Un treno che è passato e che non si è stati capaci di prendere. Il match point della sua generazione è stato l’anno 1992, quando Falcone e Borsellino persero la vita. Due uomini che si sono sacrificati in nome di un compito importante, che ritennero il loro valoro più prezioso delle loro stesse vite. Questo è per Scanzi il treno che è passato e sul quale i quarantenni di oggi non sono stati in grado di salire. La possibilità di dare una svolta non solo alla lotta contro la mafia, ma all’intero paese.

Quell’episodio però è stato sicuramente il punto di svolta di Scanzi e il motivo che lo ha spinto a fare ciò che ancora adesso sta facendo e la spinta a scrivere il libro protagonista della serata. Perché questo è il suo modo di dire ai quarantenni che si trovano nella terra di mezzo, in un’epoca divisa tra un passato più glorioso del presente, e una nuova generazione che chiede e pretende i suoi spazi, che c’è ancora un possibilità per ripartire, per alzarsi dalla panchina se riusciranno prima a rimettere in discussione loro stessi. Così il libro si conclude con una sorta di decalogo, di consigli e di regole per provare ad attuare quel cambiamento profondo e totale di cui oggi sentiamo tanto la necessità.

L’incontro è concluso, Casale ci saluta intonando Sono solo canzonette di Bennato. Tutti applaudono per salutare i protagonisti della serata.

Scalzi riprende la parola solo per chiedere un ultimo applauso. Un applauso per Patrizia Moretti, offesa da un applauso ben più grave: quello che ha sostenuto gli agenti che hanno ucciso di Federico Aldrovandi. Un applauso per abbracciare sua madre, un applauso per dire che gli italiani sono un’altra cosa.

Marina Usai
@marina_usai