Schiavi mai, perché stiamo perdendo il diritto di essere umani

Piazza IV novembre, nel cuore di Perugia, domenica 7 aprile è tagliata in due da una fila interminabile: quella per entrare nella Sala dei Notari a sentire Aboubakar Soumahoro, sindacalista e attivista, e Marco Damilano, direttore de l’Espresso.

A pochi giorni dal “Non me sta bene che no” del quindicenne di Torre Maura, quella fila assume un significato particolare, e Aboubakar ne è consapevole: per questo, prima di iniziare l’incontro, decide di uscire, insieme a Marco Damilano, per salutare e ringraziare tutte le persone che non sono riuscite ad entrare.

Il direttore dell’Espresso ha aperto l’incontro parlando del libro di Aboubakar che uscirà a breve, edito da Feltrinelli, dal titolo “Umanità in rivolta, la nostra lotta per il lavoro e il diritto alla felicità”. Umanità, rivolta e lotta sono le tre parole del titolo da cui si è avviata la discussione: il riferimento è all’opera di Albert Camus, “L’uomo in rivolta”, particolarmente apprezzata dall’autore.

Aboubakar Soumahoro, è una delle personalità politiche emergenti: 38 anni, è originario dalla Costa d’Avorio. Quando viveva in provincia di Napoli ha fatto il bracciante, il muratore, poi c’è stata la laurea in sociologia alla Federico II e l’entrata nel sindacato; attualmente fa parte del direttivo nazionale dell’Usb, l’Unione Sindacale di Base. La marcia è uno degli strumenti di protesta e attivismo in cui Aboubakar Soumahoro crede di più: è stato l’organizzatore di quella dell’8 agosto 2018, conosciuta come “la marcia dei berretti rossi”, in riferimento ai cappellini che i dodici braccanti agricoli morti durante l’incidente stradale nel foggiano indossavano per proteggersi dal sole mentre lavoravano nei campi.
“Per marciare serve una meta, un obiettivo, per cui si marcia, una destinazione e servono dei compagni di strada: marciare è un’azione comunitaria, un’azione collettiva, un’azione che si fa insieme ad altri.”, lo incalza Damilano, leggendo alcune righe del suo libro.

Coscienza e lotta collettiva

Aboubakar Soumahoro usa la parola “compagni”, senza paure e senza remore. Ma non la usa solo riferendosi ai braccianti sfruttati nei campi: la universalizza, la rende più che mai inclusiva. Parla dei senza voce, degli invisibili: dei riders, di chi è relegato nella marginalità delle periferie, di chi deve affrontare la precarietà esistenziale, oltre a quella economica; dietro di lui c’è un’umanità in rivolta, che lui rappresenta in toto.

Poi parla del linguaggio stigmatizzante utilizzato dai media, dalla politica e purtroppo, talvolta, anche dalle persone comuni. “Questo camminare – spiega Aboubakar – che non è un camminare individuale, singolare, ma è un camminare andando contro quella tempesta, non quella fisica, ma la tempesta delle parole. La tempesta della propaganda, che trasforma la stessa parola non più in vento che ci sfiora, ma la parola che diventa una freccia, una parola che sostituisce la violenza stessa.”

Le parole stesse quindi possono diventare violenza: l’equazione migrante = marginale, delinquente, ladro. Aboubakar conosce bene questo tipo di violenza verbale, conseguenza della retorica del “prima gli italiani” e della “razza”: uno stratagemma per abbassare il costo del lavoro e per ridurre drasticamente la distanza legittima tra lavoro e sfruttamento.
I paradigmi responsabili di questa progressiva disumanizzazione che il nostro paese sta affrontando sono tre, secondo Aboubakar: quello dell’invasione, l’economico-utilitaristico e quello securitario, basato sul generare paura e un senso di insicurezza. Una cosa si muove se risponde ai bisogni che ruotano intorno all’utilità per il mercato. Le merci si muovono, gli uomini no: o almeno non tutti allo stesso modo.

Il paradigma a scuola, fa notare Damilano, è una regola, qualcosa che non si può cambiare: i paradigmi prima sono diventati consuetudini, e successivamente leggi dello Stato. La più insidiosa, la Bossi-Fini del 2002, è ancora attiva, e nessun partito ha inserito la cancellazione nel suo programma politico ed elettorale anche se, in uno Stato democratico, i diritti delle persone dovrebbero essere più importanti delle leggi. In un frangente storico e politico preoccupante come quello che stiamo attraversando, risulta più che mai di vitale importanza lo sviluppo di una coscienza collettiva che impari a considerarsi come un NOI, e che possa poi intraprendere un cammino di lotta condiviso, collettivo e trasversale.
Perché negli ultimi anni, quelli messi all’angolo non sono solo i migranti che arrivano in Italia con i barconi: lo dimostrano le statistiche che parlano tristemente del preoccupante numero di italiani emigrati all’estero in cerca di lavoro, o di un’occupazione che sia coerente con il proprio percorso di studi.

Mettere in rete tutte le lotte

In una situazione in cui il tessuto civile sembra sempre più inadatto a garantire i diritti minimi che dovrebbero essere riconosciuti a ogni essere umano, occorre mettere in rete tutte le battaglie di chi sta lottando e rappresentano la complessità del presente: non si può semplificare tutto, come spesso fanno i politici. Nel libro sono raccolte le storie di tante persone: come quella di Paola Clemente, la bracciante uccisa dalla fatica mentre lavorava all’acinellatura dell’uva per 2 euro all’ora. Ma anche la storia di Soumaila Sacko, ammazzato a 28 anni da una fucilata sparata da ignoti vicino a Rosarno il 3 giugno 2018: Aboubakar ha riportato il suo corpo in Mali, dalla sua famiglia.

Aboubakar riflette anche sulla questione del cibo, dell’importanza del chiederci cosa ci sia dietro a quello che compriamo al supermercato, o chi sia il ragazzo che ci porta la pizza a casa: questa disarticolazione sociale è causata dal nostro modello economico. Occorre riflettere sul lavoro, su come è possibile ripensarlo in termini più sostenibili per tutti: è necessario tornare a parlare di giustizia sociale, della necessità dei poveri di emanciparsi. “La differenza rispetto alla marcia che veniva portata avanti da Martin Luther King-conclude Aboubakar- è che non dovrà essere una marcia monocolore: dovrà essere una marcia meticcia.”