
Quel che bisogna sapere sulla Siria è anzitutto che non è molto facile raccontare cosa stia accadendo e cosa sia accaduto fino a oggi. Ma è necessario parlarne, per scandagliare le fonti, capire a chi dare credibilità e soprattutto non permettere che su questa guerra — o rivoluzione che la si voglia chiamare — cada il silenzio.
A parlare della guerra civile siriana, iniziata il 15 marzo del 2011 con una rivoluzione contro il regime di Bashar al-Assad e sconfinata in vero e proprio conflitto civile nel 2012, è stato il giornalista del Sole 24 Ore Ugo Tramballi, che alle spalle ha un’esperienza molto approfondita sul Libano. Insieme a lui, voci diverse di cronisti. L’americano Sam Dagher, corrispondente del Wall Street Journal, già in Iraq nel 1993 fino al ritiro delle truppe americane, poi distaccato sulla primavera araba, in Barein, Egitto e nella Libia di Gheddafi fino alla sua caduta.“È un conflitto polarizzato — ha spiegato Dagher — che divide il Medio Oriente per sette religiose. Polarizza le persone a tal punto che il meglio che possiamo fare noi giornalisti è mettere insieme frammenti di verità, che compongano alla fine un’immagine globale”.
La mancanza di una vera tradizione di giornalismo in Siria è uno degli aspetti più importanti messi in luce dal tavolo dei relatori. “Negli ultimi 3 anni, i ribelli, gli insorti, i citizen journalists, non sono stati in grado di sviluppare voci indipendenti. Il loro modo di fare giornalismo è appiattito su quello di regime — ha spiegato Marwan Maalouf, co-fondatore nel 2011 del portale di informazione sul Medio Oriente, Menapolis — e vengono riportate notizie in qualche modo propagandistiche. I giornalisti stranieri, poi, hanno grossi problemi ad entrare in Siria oggi perché non abbiamo più zone sicure come qualche anno fa, gli stessi giornalisti dell’opposizione vengono rapiti dalle varie fazioni. La situazione è pericolosa”. E se dare una copertura di informazione è così complesso, una sensazione i cronisti l’hanno avuta. “È come se la popolazione sentisse che la situazione è sfuggita di mano. Il conflitto siriano ha prodotto un numero molto alto di testimonianze video, ma non si capisce chi dica la verità”.
Lo stesso Sakhr al-Makhadhi è oggi un giornalista freelance ma quando, nel 2004, ha iniziato a scrivere come blogger dei conflitti in Medio Oriente, aveva paura perché – dice – “non potevo parlare liberamente e usavo il visto da studente per entrare in Medio Oriente pur di non farmi riconoscere. In Siria come media abbiamo fallito perché non siamo riusciti a dare un’informazione puntuale e precisa, ma è anche vero che per quanto riguarda l’informazione istituzionale è impossibile separare la forza dei media di Assad e la forza militare. L’opposizione è in uno stato di confusione, si stanno scorporando”.
Nell’impossibilità di prevedere quanto durerà ancora questo conflitto, Ugo Tramballi ha sottolineato l’importanza di tenere alta l’attenzione mediatica, anche in Italia. “Finalmente si parla della Siria, in un Paese che non sembra più interessato a guardare a ciò che succede al di fuori dei suoi confini”.
Caterina Cossu
@caterinacossu