Tracciando la vendita di armi all’estero


Dove finiscono le armi vendute dal governo italiano? Vengono usate sui civili? Vengono vendute a governi illiberali o dittatoriali? Domande non semplici, ma c’è chi ha provato a dare delle risposte, indagando su uno dei settori economici meno trasparenti. Alla Sala Raffaello dell’Hotel Brufani, in occasione del Festival Internazionale del Giornalismo, è stato presentato #Italianarms, la parte italiana di #EUarms, progetto di Lighthouse Reports in collaborazione con Bellingcat e con la trasmissione di Rai3 Report. L’incontro è stato tenuto da Ludo Hekman – cofondatore di Lighthouse Reports -, Benjamin Strick di Bellingcat, Lorenzo Di Pietro di Report e la giornalista freelance Laura Silvia Battaglia, che hanno lavorato per il progetto #Italianarms.

Le armi italiane in Turchia (e non solo)

Il panel inizia con un video. Un elicottero Leonardo T129 – Leonardo è il nuovo nome della Augusta Westland – sta sparando sulla regione di Afrin, in Siria. Siamo nel gennaio 2018 , e l’esercito turco ha avviato l’operazione Olive Branch – Ramoscello D’Ulivo – , una grande offensiva contro il popolo curdo. L’Italia ha fornito elicotteri e mezzi per il trasporto aereo – “Almeno 10 velivoli sono stati spediti in Turchia tra 2008 e 2017”-, oltre ad aver addestrato i gli stessi piloti turchi. Il T129 nel video sta sparando in un’aerea dove sono presenti dei villaggi, e quindi civili. L’Italia non avrebbe potuto vendere quei mezzi alla Turchia. Ma questa è una delle 4 storie isolate dal team che ha lavorato a #Italianarms.

L’italia, spiega Laura Silvia Battaglia, è un paese che da tempo investe nell’industria militare. “La metà dei principali esportatori mondiali d’armi sono paesi membri dell’Unione Europea, e tra i primi c’è l’Italia, che ha un’industria bellica in crescita, avendo una posizione consolidata tra i primi dieci esportatori d’armi in tutto il mondo”. Più precisamente, come dirà Lorenzo Di Pietro più avanti, (min. 33:58) “esportavamo a 56 paesi nel mondo negli anni ’90, ora siamo ad 86 paesi”. Il record di esportazioni è stato raggiunto nel 2016, con una cifra totale di 14,6 miliardi di euro. Un’industria forte anche nella vendita di armi leggere. Per venderle in paesi non democratici, inoltre, sfrutta un trucco: la legge italiana impedisce il commercio di armi per uso militare a paesi non democratici, ma “molti armamenti sono dual use“, continua Di Pietro, “questo riguarda sia le armi pesanti come gli elicotteri, che possono essere usati per scopi civili e convertiti a scopi militari, sia le armi leggere, che possono essere usate per funzioni di polizia”, che non vengono considerate come un uso militare. Un esempio è la vendita dei fucili Benelli F4 al Bahrain, per cui il progetto ha potuto riscontrare l’uso dei fucili contro i civili durante le rivolte del 2011. Inoltre, nel 2016 viene autorizzata l’esportazione dei pezzi di ricambio degli F4: un’altra violazione delle leggi nazionali ed europee.

Come si rintracciano le armi?

La vendita di armi è un mondo opaco. Per reperire le informazioni e per trovare documenti, sono stati fondamentali i database open-source, come quello del Sipri – lo Stockholm  International Peace Research Institute –  “Un ottimo database, dove si possono trovare le spese militari. Contiene varie fasce temporali delle spese militari dei vari paesi a partire dal 1949 al 2019”, ha continuato la Battaglia. Per capire cosa cercare è necessario farsi delle domande precise:  “Chi sono i fornitori ed i destinatari delle armi convenzionali principali? Le armi sono state esportate o importate da specifici fornitori o destinatari? Come cambiano nel tempo le relazioni tra i diversi fornitori? E quando ricevono le armi i paesi in guerra?”. Inoltre, da non dimenticare è il “rapporto tra l’accesso alle risorse naturali e grandi trasferimenti”. Uno dei problemi principali che si riscontrano in questo campo è la difficoltà a rintracciare il traffico di armi dopo che sono state spedite, ci dice Ludo Hekman. Per verificare le informazioni sul campo, spesso è necessario usare gli strumenti di tutti i giorni, come Google Heart o Google Maps. A riguardo, Benjamin Strick ha mostrato al pubblico come hanno usato – e come possono essere usati – questi strumenti, insieme ad altri, per verificare le informazioni e ridurre il campo delle possibilità. Infatti, “Open Source vuol dire essere ad un concerto rock e chiedersi ‘quale strumento sta facendo quel rumore?’. Ci sono così tante informazioni là fuori che l’unica cosa che bisogna fare è abbassare il rumore e capire da dove proviene il suono”.

Non rispettare le proprie leggi, né quelle europee

“Nella maggior parte dei paesi abbiamo delle regole su chi può avere un arma e se ci dovessero essere troppi incidenti violenti nello stato puoi adattare le regole, così da poter controllare le armi all’interno del tuo paese”, spiega il direttore del progetto, Ludo Hekman. Regole che ci sono anche a livello internazionale: “La maggior parte degli stati, soprattutto quelli europei, ha leggi interne che permettono di esportare armi, ma solo a certe condizioni”. A livello europeo, abbiamo un accordo chiamato “Posizione Comune che permette l’export di armi sotto 8 condizioni da tenere in considerazione”. Per esempio, non si potrebbero vendere armi note per la repressione violenta, o che abbiano una brutta reputazione nell’ambito dei diritti umani. Se passiamo al nostro contesto nazionale, la faccenda non diventa meno complicata. “Sul punto di vista della trasparenza, anche sulle armi l’Italia si conferma un paese che soffre di gravi problemi di trasparenza, resi più severi con gli anni”, ci racconta Lorenzo Di Pietro, che per farci capire meglio la situazione ha scelto una frase emblematica di Giorgio Beretta – presidente dell’Opal, l’Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere – “Il governo italiano era più trasparente durante il governo Andreotti”.

Documenti, documenti, e ancora documenti

Come funziona, quindi, la regolamentazione della vendita di armi? Essa è legata ad una serie di documenti diversi. Uno dei documenti fondamentali è la relazione annuale sull’export delle armi, che “serve a dare al parlamento il controllo sugli armamenti esportati. Controllo che dovrebbe essere fatto rispetto alla normativa imposta dalla legge 185 del’90, che regola appunto l’export delle armi” ed è una legge di per sé restrittiva. Il report contiene tanti documenti di non semplice comprensione: Report si è servito di un team di esperti, che ci ha lavorato per mesi. Di Pietro cita due di questi documenti:

  • L’autorizzazione all’esportazione del Ministero degli Affari Esteri. In esso “trovate elencati il nome dell’azienda, l’oggetto dell’esportazione (l’armamento), l’ammontare, ma non trovate il paese di destinazione”, che è stato tolto negli anni ’90. Si sa cosa si esporta e quanto, ma non a chi
  • La tabella delle esportazioni del Ministero dell’economia, “la quale ci fornisce un numero progressivo, la società produttrice dell’armamento, la destinazione, un elenco degli importi dettagliati per ciascun tipo di bene, ma non c’è il dettaglio di che cosa viene esportato”.

In pratica, si sfrutta la confusione, la poca trasparenza ed interpretazioni particolari delle norme per vendere comunque le armi a paesi illiberali. Le leggi ci sono, ma è possibile aggirarle. In questo caso, l’unico modo per arrivare alle informazioni necessarie è incrociare i documenti in modo meticoloso, aggiungendone altri come il Transit Table di ogni singolo acquisto. Ci vogliono comunque  mesi per arrivare a qualcosa. “Sostanzialmente, oggi, se voi voleste capire quale armamento viene venduto a quale paese, dovreste aspettare la fine dell’esportazione”. Solo che i contratti, di solito, si sviluppano in più anni.