Trump è una fortuna per il giornalismo internazionale?

L’elezione di Donald Trump è la migliore cosa che poteva accadere al giornalismo?

È questa la domanda, apparentemente provocatoria, che si sono posti gli esperti di giornalismo internazionale intervenuti ieri in sala Raffaello all’Hotel Brufani, durante il panel “Why Trump is the best thing to happen to journalism”.

A moderare l’incontro Stephan Weichert, di Haburg Media School, che ha subito messo sul piatto gli aspetti più spinosi della questione: per il giornalismo internazionale la vittoria di Trump è stata una sorpresa inaspettata a cui quasi nessuno era preparato, o che pochissimi, non di certo i più noti, avevano previsto. E ora che fare? Profittare della situazione per ripensarsi nel ruolo di giornalisti applicato al sociale o arroccarsi nel tentativo di resistere alla delegittimazione del proprio ruolo? A portare ognuno la propria visione al tavolo Frederik Fisher, Jeff Jarvis , Adam ThomasLina Timm,  Claire Wardle e Guia Baggi.

È quest’ultima a prendere per prima la parola, affermando subito di non avere alcuna ricetta per affrontare, ad esempio, il problema delle fake news (l’accusa/panacea che Trump e i suoi collaboratori muovono ai media in una vera e propria battaglia di delegittimazione) ma, al contrario, di avere delle buone pratiche da condividere che possono migliorare l’ambiente del giornalismo. “Con Irpi – Investigative Reporting Project Italy, di cui Guia è co fondatrice – abbiamo deciso di concentrarci sulla collaborazione di respiro internazionale con altri giornalisti e questo soprattutto dopo l’elezione di Trump”. L’elezione imprevista del magnate dell’industria statunitense a Presidente degli Stati Uniti per Guia Baggi ha sottolineato lo scollegamento tra le persone e i media, emerso dall’errore di interpretazione dell’opinione pubblica sulle intenzioni di voto. Come soluzione a questo tipo di errori metodologici, la giornalista propone il metodo adottato da Irpi che articola in tre punti fondamentali: “I media dovrebbero prima di tutto aprirsi e lavorare con reti di freelance e organismi no profit che sono presenti in tutto il paese, capendo meglio le sensazioni dei cittadini. Dovremmo poi passare meno tempo online e andare di più a lavorare in mezzo alla gente, nei centri culturali, nei centri di aggregazione, rendendo il giornalismo un’esperienza più personale. La terza cosa fondamentale sarebbe rendere il nostro lavoro più veloce e preciso con l’uso di tool e strumenti digitali open, per sprecare meno tempo possibile nella ricerca e nell’accesso alle informazioni”

Frederik Fischer, chief editor of piq.de, comincia il suo intervento con una confessione rispetto al suo rapporto di amore e odio con il Festival: “Mi dispiace che emerga dai vari panel che nel mondo giornalistico non stiamo facendo molti progressi”. È per questa immobilità percepita nel settore che Frederik Fischer cerca delle nuovi chiavi di letture e soluzioni altrove, per esempio nel mondo dell’ecologia, che sta vivendo una trasformazione radicale, simile allo sviluppo della rete peer to peer su internet. La domanda centrale della riflessione del giornalista è quindi: “Cosa possiamo imparare dal movimento ecologista?”. Ipotizzando come scenario lo sviluppo di una rete di sostenibilità nel giornalismo, il primo passo sarebbe rimarcare fattivamente la differenza tra giornalismo industriale e giornalismo per il bene pubblico. È questo parallelismo tra cultura dell’ecologia sostenibile e movimento post Trump che porta il giornalista ad affermare: “Donald Trump è la Chernobyl del giornalismo”.

 

Stephan riprende la parola per introdurre Jeff Jarvis, Graduate School of Journalism CUNY, come “l’uomo che ha twittato fucking a, America” subito dopo l’elezione di Trump.

Il giornalista è stato coinvolto, infatti, in prima persona nella campagna elettorale pro Clinton e nel movimento di resistenza alla candidatura e ora alla presidenza di Trump. L’apertura di Jarvis, che indossa un cappello con visiera con la scritta “Resist”, non lascia infatti grande spazio all’interpretazione. “Non c’è niente di buono nell’elezione di Trump”, ma comunque secondo Jeff “dovremmo smetterla di lamentarci del problema e  trovare un’opportunità, o una lezione da questo inferno”.

La lezione del voto americano ai giornalisti starebbe nella presa di coscienza di un problema endemico: l’incapacità di questi ultimi di ascoltare il pubblico, le comunità (gli afroamericani, i latini, le donne disabili). Secondo Jeff questo scollamento tra pubblico e giornalismo negli US ha un’origine antica: “Quando abbiamo contribuito a far cadere Nixon abbiamo alimentato la sfiducia verso i media di metà della popolazione americana”. Questa perdita di fiducia avrebbe depotenziato i media da essere contribuito attivi nel costruire la visione del mondo dei pubblici.

Cosa fare adesso per recuperare questo scollamento? “Il nostro unico contributo può essere di ascoltare” propone Jarvis  come soluzione, e farlo sfruttando le potenzialità del giornalismo sociale, che mette al primo posto il racconto delle comunità.

La soluzione che propone Lina Timm, founder e program manager di Media Lab Bayern, è di rottura rispetto a quelle esposte dai colleghi in precedenza. Secondo Lina, che dall’attività giornalistica tout court è passata ad occuparsi di progetti innovativi e startup del settore media, il giornalismo tradizionale sta pagando il suo peccato di arroganza. Trump infatti non sarebbe la diretta causa del declino e della delegittimazione del giornalismo per il pubblico, ma avrebbe solo portato alla luce tutto ciò che i media hanno sbagliato negli ultimi tempi. L’arroganza del giornalismo non si sarebbe manifestata solo nei confronti dei lettori, ma anche verso i nuovi attori del settore, derisi e guardati da un “piazzale di marmo” come “news outlet”, quando invece avrebbero tanto da insegnare, in termini di capacità di individuare il problema del pubblico e costruire un prodotto che ne sia una soluzione.

È sul tono dello scontento e della provocazione che continua Claire Wardle di First Draft News. Secondo la giornalista ci sarebbero troppe altre storie, oltre a quella di Trump, di cui il giornalismo non parla, e su cui il dibattito lì al tavolo dovrebbe concentrarsi. Se Trump si permette di usare l’argomento delle fake news come un’arma è perché troppi sono quasi ossessionati dal problema. “Ma il problema vero è la disinformazione sistematica, l’inquinamento dell’informazione. Dovremmo essere estremamente cauti nel parlare di Trump, nel dire che i valori delle persone non sono stati rappresentati” conclude la giornalista.

A chiudere il giro di interventi è Adam Thomas, direttore dell’European Journalism Centre, che sembra avere una visione più moderata, e meno “arrabbiata” rispetto alle precedenti dei colleghi.

“Io credo molto in questa nuova era in pieno sviluppo del finanziamento filantropico, e non mi sembra sia un caso che questo stia succedendo dopo Trump”. Secondo Thomas la crisi del giornalismo è stata ampiamente documentata, sia perché non ha più  più presa sui pubblici, ma anche perché è andato in crisi il modello di business a sostegno del settore: “Siamo al punto più basso da 12 anni a questa parte in termini di finanziamento al giornalismo”.

Trump, secondo il giornalista, metterebbe il giornalismo davanti a un problema da risolvere: la scelta di un nuovo approccio da una parte, di un nuovo business model dall’altra. “Servono persone che facciano da ponti, architetti della fiducia, persone trasparenti, capaci di storytelling empatico e coinvolgente” Per diventare un ponte il giornalista oggi dovrebbe evolvere il suo modo di lavorare, imparando dalla psicologia comportamentale: “Dobbiamo pensare alle soluzioni per i problemi, avere accesso a tutti i settori della società e imparare altre cose nuove”. In definitiva, secondo Thomas, sì, Trump, rendendo urgente questo bisogno di cambiamento, è per il giornalismo internazionale la cosa migliore che potesse capitare.