Vivere il conflitto per raccontarlo

Essere al cospetto della storia mentre sta per accadere. Questo è ciò che spinge Lucia Goracci, giornalista di RaiNews24, a continuare a cercare la verità tra i complicati e intricati conflitti mondiali; nonostante rischi la sua stessa vita ogni giorno.

Ma come è cambiato il mestiere dell’inviato di guerra? Al centro servizi Alessi, al panel “Giornalismo di guerra: vecchie e nuove sfide” l’argomento è molto sentito.

Foto: Alessia Dispoto

Secondo Amedeo Ricucci, inviato del TG1, il primo e principale cambiamento è tecnologico. La rivoluzione degli strumenti è epocale: accorcia i tempi e diminuisce i costi, ma è anche una sfida importante, perché la velocità non va d’accordo con la verificabilità. Nella ricerca della verità è necessario avere contatti sul posto e non avere fretta di essere i primi.

Per Daniele Raineri (Il Foglio) l’inviato ha un ruolo fondamentale e può offrire molto. Anche rispetto ai giornalisti locali, che sono coinvolti in una guerra d’informazione. È necessaria un figura che sia presente sul posto, che possa controllare e verificare gli avvenimenti e le notizie.
La realtà dei fatti è una conquista, una ricerca incessante. Fermezza, curiosità e onestà intellettuale muovono le penne dei giornalisti che si immergono in una cultura completamente diversa dalla loro e in un gomitolo di storie, facce e idee. Intervistano, ascoltano capiscono e mettono ordine. Il giornalista non si ferma davanti all’evidenza dei luoghi in cui viene portato, ma indaga, approfondisce.

“Il giornalista del 2015 deve essere molto più analista che semplice osservatore”, dice Lucia Goracci. Anche Daniele Raineri sostiene che maggior parte del lavoro si fa in Italia. Si studia e si approfondisce “qui” per andare “là” preparati ed essere in grado di vedere i dettagli, che possono essere capiti a fondo solo con il lavoro sul campo, parlando con la gente. Lo sa bene Theo Padnos, giornalista e scrittore americano, che nel 2012 è stato rapito ad Aleppo da Jabhat al Nusra, il fronte siriano di Al-Qaida, ed è rimasto prigioniero per due anni.
Quando è iniziata la violenza in Siria lui era sul posto e si è accorto che la gente moriva, ma i giornali non spiegavano perché. Voleva capire e raccontare.
Ha provato lo stesso smarrimento durante la prigionia. Sapeva che era in pericolo di vita, ma non sapeva cosa stava succedendo. Fu fondamentale per lui pensare all’amore, pensare ai rapporti che intercorrevano tra quelle persone. Ha cercato, quindi, di analizzare l’amore al tempo della Jihad.
Theo è rimasto estremamente colpito da come, con l’arrivo dell’uragano, come lo chiama lui, l’amore a Damasco si sia raffreddato, congelato sotto i suoi occhi. Tutto questo si riflette nella musica. Quella che ascoltava prima della guerra, di un gruppo pop di Damasco, che cantava canzoni d’amore trasmettendo speranza, tenerezza, affetto; e quella che cantavano i soldati sul furgone che lo portava alla cella dove sarebbe rimasto per i successi 22 mesi: “Americani noi vinceremo, la vostra tomba sarà in Siria”. Un annullamento totale delle individualità, dei sentimenti, dello sguardo al futuro.
Theo era convinto che sarebbe morto. Catturato, torturato, in uno spazio vitale ristrettissimo. E insieme a lui sarebbe morta la verità, la spiegazione di ciò che sta succedendo, una guida per dipanare i nodi.

Si è salvato, ma questo porta in luce, secondo Daniele Raineri un’altra grande differenza tra il “prima” e “l’ora”: prima essere giornalista era una sicurezza in più, un fatto da sbandierare per evitare di essere uccisi; ora, invece, bisogna nascondersi. Il giornalista non è più benvoluto e questo comporta grandi ricadute nel mestiere. Bisogna, spesso, affidarsi a reporter locali, per evitare di girare con le telecamere ed essere riconosciuti. Il lavoro cambia, ma non bisogna arrendersi, non bisogna rinunciare.
Theo Padnos non è d’accordo, è convinto che in questi paesi, così pericolosi per la stampa estera, non bisogna più andarci: “È folle! Io non ci vado più”. Gli arabi sono bravi nel loro lavoro, sostiene, il nostro compito dev’essere solo quello di far capire. “Però poi si rischia di abdicare alla nostra professione”, interviene Lucia Goracci, che mette l’accento su tutte quelle zone in cui la libertà di stampa è assente, dove è difficile fidarsi ed affidarsi a solo ai locali.
Il lavoro dell’ inviato di guerra è dunque molto difficile, ricco d’insidie sia concrete che “telematiche”: i giornalisti, infatti, devono anche far conto con il popolo della rete che spesso critica, diffida, insinua. Ma Daniele Raineri sottolinea che nel loro lavoro non c’è nessun interesse personale, ma solo la voglia di raccontare quello che vedono.

La lotta quotidiana tra tweet, notizie false, pallottole e rapimenti è solo una delle componenti di questo lavoro. Il giornalista di guerra combatte con il cuore e con la penna per evitare approssimazioni, superficialità e inesattezze. L’amore per la verità lo spinge a rincorrere le tracce anche in capo al mondo per dare dignità a ogni conflitto, per cercare di rendere logico l’illogico, per partecipare al compimento della storia, alla realizzazione di un’epoca. Poter assistere alla nascita, alla morte, alle battaglie e agli ostacoli di una civiltà è un privilegio, raccontarlo un dovere.