La cronaca nera e il fascino del crimine: conseguenze e nuove soluzioni

Foto Bartolomeo Rossi

Rapine, furti, violenze in famiglia, tragiche storie di suicidi o ancora brutali omicidi… ormai siamo invasi continuamente di notizie del genere, riproposte quasi obbligatoriamente nei vari palinsesti televisivi nostrani. Da quindici anni a questa parte si sta vivendo una sorta di “ipertrofia comunicativa del crimine” – per riprendere proprio le parole di Nino Rizzo Nerva, presidente del CISSFAGR e speaker dell’incontro sul tema – e sembrerebbe che la cronaca nera sia diventata parte integrante della nostra vita, quasi il lato oscuro della nostra esistenza.

Ma perché agli italiani piace così tanto la tragedia, e qual è l’impatto socio-economico che questi processi hanno nella società e nelle persone?

Il problema è stato analizzato durante la primissima giornata della X edizione del Festival Internazionale del Giornalismo, dove nella suggestiva cornice del teatro della Sapienza sono intervenuti Lucia Annunziata (direttore dell’Huffington Post Italia), Duilio Giammaria (Tg1), Nino Rizzo Nervo (presidente CISSFAGR) e Antonio Socci (direttore della Scuola di giornalismo di Perugia). Il panel – dal titolo “cronaca nera, gli effetti collaterali” – è stato organizzato a cura del Centro italiano di studi superiori per la formazione e l’aggiornamento in giornalismo radiotelevisivo (Cissfagr). Ne è nata una riflessione molto attuale su come la carta stampata e la televisione più in generale affrontino il racconto della cronaca nera, e su quale sia il metodo migliore per continuare a parlarne.

In questo caso, il punto di partenza corrisponde anche al punto geograficamente più vicino a noi: parliamo del processo mediatico per eccellenza che sconvolse proprio la stessa città sede del festival del giornalismo, ossia Perugia con l’emblematica vicenda dell’omicidio di Meredith Kercher. Vicenda che divenne protagonista di due film, 30 libri, e che comparve anche in una clip musicale del rapper J-Ax e nella serie televisiva animata de “I Griffin”.

Come mostra il reportage realizzato dai 25 allievi del 2° biennio della Scuola di giornalismo di Perugia, l’arrivo delle telecamere da tutto il mondo e la ricerca inesauribile del colpevole hanno condizionato definitivamente il luogo dov’è avvenuto il delitto, causandone gravi perdite nei settori commerciali, immobiliari e universitari – con un calo di studenti a Perugia di circa il 30%, registrato dal 2007 al 2015. La precisione dei dettagli, il racconto e l’indagine sulle vite private delle vittime, la quotidianità e la normalità di certi gesti o luoghi: tutto questo contribuisce ad accrescere il fascino del crimine e della cronaca nera nel pubblico, che diventa quasi spettatore passivo di fronte alle notizie che gli arrivano.

Il giornalista, invece, dovrebbe avere una sorta di patentino per trattare di questi temi: secondo Duilio Giammaria, il ruolo del cronista è di mediazione, critica, analisi quindi “si può parlare di cronaca nera e si deve parlare di cronaca nera, ma lo si può fare accendendo la luce su alcuni fenomeni sociali, interrogandoci sul nostro ruolo rispetto alla cronaca nera, e non semplicemente mercificandola”.

La cronaca nera quindi va fatta, è un dovere ben preciso del giornalismo, ma va fatta con criterio e con competenze specifiche. Operando un parallelismo tra la tragedia greca, come mimesi e catarsi, e la narrazione dei fatti di cronaca nera, Antonio Socci rileva come nei media, oggi, manchi l’elaborazione culturale che caratterizzava invece le esperienze dei tragici: “non possiamo permettere che il male irrompa brutalmente su tutti i palinsesti senza quella elaborazione culturale che è la riflessione sul bene e sul male, l’arte, il teatro, la filosofia morale”. Eppure siamo ancora lontani dalla realizzazione di questi principi, perché “il racconto della cronaca è diventato l’eccitazione della morbosità del pubblico – risponde Nino Rizzo Nervo – non si racconta il fatto per quello che è, ma come riteniamo che il pubblico, per averne sempre di più, lo voglia raccontato”.

E questo porta a uno degli effetti collaterali della cronaca nera, che è come la televisione sia ormai entrata nella strategia difensiva dei presunti colpevoli.

Davanti alle aspettative del pubblico e all’esplosione del fenomeno nel web o nei social network come Twitter o Facebook, secondo Lucia Annunziata c’è una sola soluzione: essere competenti e avere le giuste conoscenze, anche sulla cronaca nera. “Il problema non è se occuparsene o meno – spiega la direttrice dell’Huffington Post Italia – il problema non è perché ci interessa, il problema è come lo si legge e come lo si racconta. Il giornalismo è sempre un problema di competenze”. Se è vero che occorrono specifiche conoscenze per essere un buon giornalista sportivo, politico oppure economico, il discorso sembrerebbe invece non valere per la cronaca in generale. Anzi, “per fare la cronaca si prende chiunque – prosegue Lucia Annunziata – dentro i giornali, dentro le televisioni, la prima cosa che si fa è noi stessi usare la cronaca come se fosse materia vile. Spessissimo la cronaca è nelle mani di persone che non sono competenti”.

Per garantire dunque il buon operato del giornalista e di conseguenza una buona informazione del pubblico, bisogna tenere conto di alcuni aspetti: la capacità dei giornalisti di trattare la materia di cui si sta parlando, e avere la possibilità di scelta. “I giornalisti devono poter scegliere – conclude Annunziata – il giornalismo è per prima cosa competenza e poi scelta. È bello ed è brutto, ma è soprattutto bello perché è una scelta individuale. Puoi sempre dire “sì” o puoi sempre dire “no”, e ti prendi le conseguenze, che ci sono sempre”.

“Sì” alla cronaca nera, dunque, ma solo se fatta da giornalisti con le giuste competenze e che siano in grado di assumersi le proprie responsabilità. Ma soprattutto, conclude Nino Rizzo Nervo, fatta da giornalisti che abbiano quell’intelligenza e quella consapevolezza “di capire se, in quel momento, vieni usato a scopi che non sono quelli del racconto della cronaca”.