In Italia il concetto è poco diffuso. Il whistleblowing, cui sono dedicati vari eventi del Festival del giornalismo, non trova neanche una traduzione adeguata. Spione, informatore, talpa, gola profonda sono tutti termini che si avvicinano al significato della parola inglese ma attribuiscono una connotazione negativa. Eppure le iniziative di whistleblowing si stanno diffondendo anche nel nostro paese e provano a fare breccia nel muro dell’omertà che si erge intorno a grandi e piccoli scandali nostrani.
A parlare delle piattaforme di whistleblowing, dei risultati ottenuti e degli ostacoli incontrati, in Italia e nel mondo, sono il giornalista freelance Lorenzo Bagnoli, la co-fondatrice di IRPI, Investigative Reporting Project Italy, Alessia Cerantola, la reporter dell’OCCRP, Organized Crime and Corruption Reporting Project, Miranda Patrucic e Justin Arenstein, giornalista e media strategist sudafricano. Il dibattito “Whistleblowing the world” è stato moderato da Giovanni Pellerano, cofondatore del Centro Hermes che ha inventato la tecnologia Globaleaks.
“Quando è uscito WikiLeaks ci siamo trovati tra amici a chiederci come avremmo potuto favorire l’emergere di simili iniziative a livello locale” ha spiegato Pellerano introducendo la discussione. “Abbiamo pensato di creare una tecnologia utile per il whistleblowing di cui si potessero avvalere realtà in varie parti del mondo”.
Oltre alla diffidenza culturale, il concetto di whistleblowing incontra difficoltà a trovare collocazione in un quadro normativo. L’Italia ha iniziato a occuparsene con le “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella Pubblica Amministrazione” del novembre 2012.
Nel 2013 il Ministero per la Pubblica Amministrazione ha inserito sul sito una descrizione della pratica e ha iniziato una collaborazione sul tema con Transparency International. Nel giugno del 2013 il Comune di Milano per primo si è dotato di un ufficio dedicato al whistleblowing.
La situazione è difficile anche in altri paesi. Se Snowden, intervenuto al Festival, è ancora costretto a nascondersi per aver svelato i programmi di sorveglianza della National Security Agency statunitense, il Giappone alla fine del 2013 ha approvato una legge per proteggere i segreti di Stato. Secondo la normativa giapponese, il whistleblower rischia fino a 10 anni di carcere, 5 il giornalista che rivela le informazioni. Desta ulteriore preoccupazione la vaghezza del concetto di segretezza: “Il parlamento giapponese è stato ben attento a non definire quali siano questi segreti di Stato” ha detto Alessia Cerantola. “I giapponesi, già restii per cultura a una pratica del genere, hanno paura e tacciono”.
Il senso di creare una rete internazionale di sostegno al whistleblowing è proprio quello di favorire il fenomeno al di là delle diffidenze e delle difficoltà normative. Per questo assume importanza una tecnologia che offra tutele a chi decida di denunciare un comportamento illecito in un ente o in un’azienda. Creare protocolli di segretezza e garantire serietà nell’utilizzo delle informazioni diventa fondamentale.
“È il motivo per cui abbiamo insistito per un test lento” ha affermato Justin Arenstein, introducendo Afrileaks, piattaforma di whistleblowing per tutto il continente africano. “Non ci devono essere buchi nella sicurezza del sistema. Ci abbiamo messo quattro mesi per lavorare in tre paesi. I metadati vengono controllati più volte per essere certi che non diventino bersaglio delle agenzie di intelligence. Abbiamo un expertise che si occupa di indagini e si concentra su questi aspetti. Il motivo per cui incoraggiamo la gente a rischiare la vita è questo”.
In Italia, l’organizzazione di Expo a Milano ha fatto nascere immediatamente la preoccupazione che potessero esserci comportamenti illeciti o pratiche di malcostume nella gestione dell’evento. È questa la ragione alla base della creazione della piattaforma Expoleaks, progetto di Lorenzo Bagnoli e Lorenzo Bodrero, in collaborazione con il Centro Hermes e la rivista Wired. Sei segnalazioni, cinque delle quali pronte a diventare inchieste (o già pubblicate).
“Il moltiplicarsi delle piattaforme crea anche dei problemi” ha detto Lorenzo Bagnoli. “I segnalatori non aumentano, dobbiamo chiederci perché. Non dobbiamo arrivare a contenderci le informazioni, va creato un sistema integrato a livello internazionale. La credibilità come giornalisti è importante. Spesso le persone preferiscono rivolgersi all’autorità giudiziaria anche perché si pensa che la segnalazione debba per forza essere legata a un reato. Non è così, ci sono elementi interessanti da raccontare anche da altre parti”.
Di stampo diverso la piattaforma giapponese, nata dall’iniziativa di un professore universitario nipponico che ha dato vita, con il sostegno del Centro Hermes, a un service di whistleblowing da vendere ai giornali. Chi decide di adottarlo paga un abbonamento e riceve informazioni attraverso questa struttura. L’idea è nata dopo il disastro nucleare di Fukushima che ha fatto emergere la collusione della stampa giapponese con le multinazionali del nucleare interessate a sminuire la portata della tragedia.
Il Centro Hermes ha contribuito anche alla creazione della piattaforma OCCRP, progetto di whistleblowing per l’Europa orientale e l’Asia centrale. “C’è voluto quasi un anno per creare questo servizio in 15 lingue” ha spiegato Miranda Patrucic. “Non avevamo la competenza tecnica, siamo molto grati al Centro. Noi abbiamo molta cura nella gestione delle fonti: quando pubblichiamo qualcosa non riveliamo alcun dettaglio. È importante essere scettici e controllare le informazioni per evitare di incorrere in errori”.
Piattaforme di questo tipo aiutano a svelare irregolarità e cattive pratiche nel pubblico e nel privato, strumenti virtuosi che incontrano resistenze da parte di chi potrebbe fornire informazioni e scarsa attenzione da parte delle istituzioni che dovrebbero tutelarne lo sviluppo. Diventa allora fondamentale la ricerca e il controllo delle fonti: se si vuole promuovere la diffusione della pratica, il whistleblowing deve restare un ottimo strumento di partenza di un’inchiesta senza trasformarsi in diffusione incontrollata di notizie. Come detto da Lorenzo Bagnoli, “il nostro lavoro resta sempre quello del giornalista”.