Alfredo Macchi: tecniche e consigli per fare reportage

Il videoracconto non ha perso la sua efficacia. Alfredo Macchi, giornalista e videoreporter per Mediaset, lo ha dimostrato in pochi minuti presentando due reportage dedicati alla situazione politica e sociale del Sud Sudan. Non importa che uno sia supportato da foto, mappe, videointerviste e testi, mentre l’altro è girato con una telecamera a volte nascosta, con riprese spesso mosse, e montato con un programma non professionale. Nel pubblico la pensano tutti allo stesso modo: il reportage più interessante e coinvolgente è il secondo, perché la storia del Sudan è raccontata in loco, perché il giornalista non fa parlare né esperti né scienziati, ma chi in quei luoghi ci vive. Quel giornalista è Alfredo Macchi e il suo reportage sul Sudan è stato mandato in onda due settimane fa da Tgcom, riscuotendo successo anche sul web. Con questo Macchi non vuole né dimostrare di essere più bravo degli altri, né che la televisione è preferibile al web. Il reportage di The Guardian T-shirt on your back è online, è supportato da foto, videointerviste, testi, musica e rumori, eppure è efficace allo stesso modo. La differenza è che riesce a coinvolgere tutti i sensi, a immergere il lettore nel giusto contesto.

 

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Foto: Danila D’Amico

È facile a questo punto ricavare una ricetta per un buon prodotto video. Luoghi e storie devono essere raccontati in prima persona. Bisogna portare testimonianze dirette, e far parlare i protagonisti. E questo senza dilungarsi nelle interviste, di modo che lo spettatore non si annoi. Per ottenere maggiore coinvolgimento poi è opportuno alternare immagini, parlato e musica.

Tecnicamente il tutto risulta più facile pensando a uno storyboard a blocchi: uno introduttivo, gli altri dedicati a interviste e storie. Poi, creare dei dibattiti sui social media, integrando la messa in onda o la pubblicazione con la diffusione su Facebook, Twitter e YouTube.

A tal proposito Macchi ha specificato quanto il cambiamento dei mezzi, e soprattutto quello imposto dal web, abbia delle conseguenze nell’ambito dei videoracconti, che arrivano a distinguersi in tre tipologie, a seconda delle piattaforme per le quali sono concepiti. Un prodotto audiovisivo classico, come quelli che vengono trasmessi (sempre meno) in televisione o al cinema. Un prodotto crossmediale, pubblicizzato su diverse piattaforme che rimandano a una storia principale. Infine un prodotto transmediale, dove il video è solo parte di un mosaico, dove a ogni piattaforma corrisponde una forma diversa del racconto.

Alfredo Macchi non ama particolarmente il giornalismo immediato, dove tutti devono saper fare tutto velocemente, lui crede nello slow journalism: un buon reporter la maggior parte del lavoro la fa prima di partire, quando individua, costruisce e studia le storie e i luoghi, prova a scoprirne i protagonisti, sceglie i mezzi per muoversi e per raccontare, preventiva i tempi di lavorazione, organizza il viaggio, prende in considerazione gli eventuali contrattempi. Una volta partiti quello che serve è il talento, bisogna cogliere l’attimo e capire quali sono le storie da seguire e quelle da lasciare, ascoltare e osservare, filmare e fotografare il più possibile. Il lavoro duro non finisce lì però; una volta tornati a casa è bene aspettare qualche giorno per smaltire la fatica, poi guardare, scartare e solo dopo aver pianificato una scaletta e il premontaggio, scrivere i testi.

La voglia di confrontarsi con gli aspiranti reporter nel pubblico, e aiutarli ad affacciarsi a un mestiere che appare sempre più difficile ha portato Alfredo Macchi a superare il tempo a sua disposizione, cercando di rispondere a tutte le domande. Tra i suoi suggerimenti, un esempio di videogiornalismo, e un post di tecniche video.

Marialuisa Greco 

One thought on “Alfredo Macchi: tecniche e consigli per fare reportage

  1. Quando il reportage rischia di degenerare in sensazionalismo?

    Ho letto con molto interesse l’articolo, che offre molti spunti di riflessione anche per chi non è un giornalista nè un reporter.
    Tuttavia una cosa mi lascia molto perplesso: “il reportage più interessante e coinvolgente è il secondo, perché la storia del Sudan è raccontata in loco, perché il giornalista non fa parlare né esperti né scienziati”.

    Certo un giornalista deve anche pensare all’audience, al coinvolgimento del pubblico, ma a scapito di cosa?

    Non siamo forse già circondati da servizi spazzatura che, sebbene emotivamente coinvolgenti, non lasciano al pubblico l’informazione, quel qualcosa in più che ci permette di evolvere come persona?

    Non stiamo già abituando i nostri ragazzi a non andare a fondo delle cose, favorendo una scansione superficiale delle problematiche?

    Non siamo già pieni di servizi che hanno la pretesa di sensibilizzare e in realtà hanno l’unico effetto di suscitare un’emozione dovuta al picco emozionale, quel picco che si scarica immediatamente con un click?

    La stessa “leggerezza” si legge quando si cita la preparazione del reporter, che appare puramente logistica.

    Ripeto che l’articolo è ben fatto, e ne consiglio la lettura.
    Traspare anche tutta la competenza del relatore.
    Tuttavia racconta solo la metà: la preparazione di un reportage che mostra la realtà senza filtri.
    Ma il pubblico è pronto a rielaborare senza una guida ?
    Peccato: davvero un’occasione mancata, soprattutto pensando all’importanza del contesto del Festival in questione.

    Che cosa ne pensate?
    Vi siete mai sentiti “esperti messi in disparte”?
    E se il reporter dovesse essere proprio un esperto dell’argomento, rendendo quindi il giornalismo una competenza trasversale?

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