Cosa sta facendo Facebook alle nostre notizie?

Foto: Diego Figone

Non sorprende affatto che Facebook abbia scelto proprio Andy Mitchell, keynote speaker del Festival, come direttore della sua divisione News e Global Media Partnership, che ha il compito fondamentale di sviluppare una rete di rapporti sempre più stretti con gli editori, le reti televisive e, in generale, con qualunque medium di comunicazione che si rivolga agli utenti del social network nel corso della giornata, qualunque sia la loro ideologia politica, condizione socio-economica o paese di residenza.

Mitchell, ora di base a New York, ha infatti lavorato per lunghi anni in una delle reti più innovative e più aperte alle innovazioni digitali, la CNN. Non è un caso che sia proprio il sito web di questa testata a detenere svariati record, come quello di prima testata online aggiornata costantemente (1995) o quello di evento streaming live con il più alto numero di visualizzazioni in simultanea (era il 20 gennaio del 2009, Obama stava prestando giuramento e, poco prima, la Regina del Soul – e il suo enorme fiocco – avevano intonato My Country ‘Tis of Thee).

Arrivato a Facebook nel 2010, Mitchell non può non sapere che l’informazione, o meglio, la “news consumption”, il consumo di notizie, sta cambiando: il 30% degli adulti e l’88% dei millennials leggono le notizie direttamente sulla propria pagina Facebook, la lettura tramite mobile aumenta esponenzialmente, ribaltando completamente la priorità della parola scritta sulla ripresa. È così che si spiega la conseguente crescita del mercato dell’informazione tramite video, con una crescita prevista del 1400% nel quinquennio 2013-18, secondo i dati Cisco presentati da Mitchell nel corso del suo speech, in quanto offrono un’alternativa più pratica rispetto all’alternativa di dover scrollare da cima a fondo un articolo sul piccolo schermo degli smartphone. Inoltre, non è mancata una serie di nuovi, importanti investimenti nel settore, con la comparsa di nuovi players sia sul mercato americano (su tutti, Vox e Vice) che su quello asiatico (Business Insider India).

Cosa modificare, in un contesto come questo, nella strategia del più popolato social network del pianeta? Semplice, se il tuo obiettivo è “dare alla gente il potere di condividere e rendere il mondo più aperto e connesso”, devi fare in modo che questo processo avvenga nel modo più facile possibile. Un compito non da poco, vista la “bad mobile news consumption experience” denunciata dagli utenti di Facebook, che, secondo Mitchell, non può che essere realizzato diminuendo i tempi di attesa per la visualizzazione dei contenuti online, in modo tale da incrementare il consumo di notizie pro capite. Parallelamente a questo inevitabile processo di ottimizzazione tecnica, però, Facebook ha pensato che l’esperienza mobile del lettore avrebbe potuto ricevere un grande beneficio dalla nascita di uno strumento che gli avesse permesso di “connettersi a ciò a cui tiene di più”: le notizie della propria famiglia (matrimoni e funerali, sostanzialmente), l’informazione globale e l’intrattenimento (in prevalenza, video di dubbio valore). È con questi tre obiettivi – connettere, informare, intrattenere – che vede quindi la luce il nuovo News Feed.

L’idea alla base di News Feed non è così diversa da quanto profetizzato a partire dagli anni ’80 dai cultori del tailor-made: offrire un’esperienza individuale altamente differenziata, nei contenuti, che variano a seconda dei like e delle pagine visitate, nonché nella forma, dove la prevalenza di video o testo scritto dipenderà dai gusti di chi legge. Inoltre Facebook sta testando come proporre nel migliore dei modi al suo utente tre tipi di “consigli di lettura”: a seconda delle scelte effettuate, ciascuno riceverà le related stories, articoli che trattano il medesimo argomento del pezzo appena sfogliato, le trending stories, argomenti di interesse generale e momentaneo, e, ancor più interessante, le interest stories, tematiche che i complessi algoritmi di Facebook predicono potremmo voler leggere.

Vista la situazione, appare quindi chiaro come qualunque editore non possa far altro che interagire con un intermediario così potente tra sé e i propri lettori, capace allo stesso tempo di intuirne e anticiparne le scelte nonché di migliorarne l’esperienza di lettura. Perché leggere su un sito non ottimizzato, quando Facebook mi garantisce la miglior qualità possibile, senza pagare un centesimo di differenza? Bella domanda.

In questo senso, è interessante leggere la disclosure pubblicata da Vox sulle procedure, anche banali, con cui si approccia quotidianamente alla pubblicazione di contenuti su Facebook. Mitchell ritiene che sia proprio la sua capacità nel padroneggiare il cambiamento (in direzione social e mobile) all’interno del mondo del giornalismo uno dei motivi dietro al rapido successo di Vox. Ad esempio, è stata citata l’ultima videointervista realizzata da Ezra Klein a Barack Obama, ottimizzata in modo tale da poter essere “consumata” senza nemmeno lo sforzo di ascoltare le parole del presidente.

Mentre, da un lato, le testate giornalistiche ragionano su come padroneggiare il (o sopravvivere al) canale social, dall’altro, Mitchell ha presentato una serie di strumenti a cui Facebook sta lavorando per rendere meno traumatico questo passaggio per gli editori, per cui è diventato ormai complicato, se mai non sia stato diversamente, persino capire quali dei propri articoli avranno successo e per quale motivo. Così, tramite la funzione di Interest Targeting potranno segmentare perfettamente i propri lettori, differenziando gli articoli inviati a seconda dei like, mentre il Post End Date permette di fissare una “data di scadenza” per gli articoli più facilmente deteriorabili, ad esempio le notizie sportive. Se non bastasse, l’azienda di Mark Zuckerberg ha appena lanciato un nuovo servizio, in collaborazione con Storyful, chiamato FB Newswire. Si tratta di un semplice profilo, gestito da Facebook stesso, con lo scopo di segnalare ai giornalisti articoli potenzialmente virali, raccogliendoli tra i contenuti proposti dagli utenti. Oltre ad essere intermediario, quindi, Facebook si propone anche come distributore di contenuti e fonte per i giornalisti.

Il paradosso è che questo aumento esponenziale nell’intensità delle interazioni tra Facebook e mondo del giornalismo accade nello stesso momento in cui gli altri colossi dell’economia digitale, Google in primis, sono nel bel mezzo di un profondo scontro con il mondo dell’editoria: è la tanto discussa rivoluzione digitale. Quale il motivo di questa diversità nei rapporti? Molto semplicemente, spiega Mitchell, gli outbound clicks, che partono dal social per dirigersi direttamente alla fonte, ai siti di notizie, con “un aumento del 50% nei referrals agli editori ottimizzati per Facebook”. Evento che sembrerebbe non ripetersi con Google News, almeno a giudicare dal caso spagnolo.

Se Nicholas Carr, su The Atlantic, si chiedeva cosa Google stia facendo ai nostri cervelli, quindi, è forse giunto il momento di domandarci cosa Facebook stia facendo alle nostre notizie, o meglio, a come “consumiamo” le nostre notizie. Meno poeticamente, come monetizzare il sorpasso del videogiornalismo mobile? Come far sì che l’etica giornalistica non si sovrapponga con la policy aziendale di un colosso digitale? Come rapportarsi con un nuovo agente che monopolizza i rapporti con il lettore, essendo, allo stesso tempo, fonte e intermediario? È ormai giunto il momento di trovare una risposta a tutti questi quesiti.