Hacking the newsroom: quando gli hacker entrano nelle redazioni

07_04_2016-Hacking-the-newsroom-Rub-n-M.-Checa-5-Il caso WikiLeaks nel 2010, i documenti sulla NSA trafugati da Edward Snowden nel 2013 e, più recentemente, i Panama Papers hanno gettato una nuova luce sul modo di fare giornalismo, facendo sorgere una serie di quesiti sul ruolo degli hacker e, in una prospettiva più ampia, sull’influenza della tecnologia nel mondo dell’informazione. Hanno trattato l’argomento delle eccellenze in questo campo: Claudio Guarnieri, hacker e ricercatore all’Università di Toronto specializzato in sicurezza informatica, Sylke Gruhnwald, alla guida del team investigativo SRF Data per il servizio pubblico svizzero, Linda Sandvik, una creative technologist, e Basile Simon, giornalista-haker per sua stessa definizione.

Philip Di Salvo, moderatore del dibattito, citando l’EJO (l’Osservatorio Europeo di Giornalismo), afferma che la commistione tra hacking e giornalismo ha un notevole impatto sul piano della trasparenza; inoltre, produce un’informazione sperimentale, innovativa e, per certi versi, più piacevole, rendendola un processo, anche partecipativo, piuttosto che un prodotto. L’incontro tra i due campi è avvenuto nel data journalism, che vede i programmatori fornire i giornalisti di app che li aiutino a isolare e analizzare dati, nel settore della sicurezza digitale –  in questo senso il progetto italiano GlobalLeaks costituisce un esempio paradigmatico –, nel costruire strumenti che siano di supporto per i giornalisti (il Washington Post, afferma Di Salvo, assume moltissimi hacker per occuparsi di ingegneria informatica).

A suffragare il carattere vincente di questa collaborazione tra hacker e giornalisti, è il team investigativo della Süddeutsche Zeitung che, nell’illustrare come si sia svolto il lavoro per la pubblicazione dei Panama Papers, spiega chiaramente che esso è il risultato di un coordinamento di diverse competenze, informatiche, in particolare, e giornalistiche.

Lo stesso BBC News Labs, per cui lavora Basile Simon, è un incubatore di innovazione in cui si cercano opportunità di sviluppo a partire dall’interazione tra giornalismo, tecnologia e data. Uno scopo simile si propone lo Knight-Mozilla Fellowship – per cui è stata selezionata nel 2015, al The Guardian, Linda Sandvik –, una borsa di studio che inserisce creative technologist nelle redazioni giornalistiche con lo scopo di costruire strumenti volti ad alimentare risorse che permettano alle agenzie di stampa di promuovere un’informazione più solida, sia online che offline.

Per Linda Sandvik la tecnologia è l’elemento che può salvare il giornalismo dal suo declino, in particolare fa riferimento ai news games, un genere di giochi a cui, nella loro fase di creazione, si cerca di applicare i principi giornalistici; diffondere l’informazione attraverso dei giochi interattivi ha una serie di meriti, prima di tutto quello di intrattenere, ma ha anche il pregio di risolvere il problema di attenzione che i media possono riscontrare nei lettori (il pubblico si trova bombardato da una quantità così spropositata di informazioni che tende a dimenticare ciò che legge sui giornali): ciò che il giornalista vuole comunicare diventa molto più facile da memorizzare per il lettore quando questi la apprende tramite un gioco in cui è egli stesso a compiere le azioni. Secondo Sandvik, una delle frasi più inflazionate, immeritatamente, quando si critica il fenomeno del news game, è “i giochi sono divertenti, ma l’informazione è una questione seria”, perché si possono anche realizzare giochi seri, e porta come esempio il “Syrian Journey”, un gioco interattivo riguardante i rifugiati siriani in cui il giocatore si trova a vestire i panni di un uomo o di una donna siriana in questo momento storico, con tutte le decisioni e le scelte che questa situazione comporta. La creative technologist difende questo gioco, reso disponibile dalla BBC, nonostante abbia attirato su di sé numerose critiche, per il merito che ha di permettere a chiunque di comprendere in prima persona la difficile condizione del rifugiato di guerra.

Di rifugiati e migranti, in uno scenario di collaborazione tra hacker e reporter, si è occupata anche Sylke Gruhnwald, in qualità di guida di SRF, parte del consorzio di giornalisti dietro al progetto “The Migrants’ Files”, indagine che porta alla luce il business da milioni di dollari che ruota intorno alla tratta dei migranti; al riguardo Gruhnwald assicura che non avrebbero potuto arrivare al cuore della notizia senza l’assistenza della componente tecnologica del team, gli hacker e i programmatori: perché un gruppo con background e competenze così diversi funzioni, la capacità di comunicazione tra le diverse componenti è un requisito fondamentale per superare le distanze tra i vari ambiti. Lo stesso afferma Claudio Guarnieri, secondo cui ci sono notizie che semplicemente non rientrano nel campo del possibile senza l’aiuto degli hacker, per la piega molto tecnica che determinate ricerche giornalistiche assumono, per l’aiuto che forniscono ai giornalisti nel capire quali informazioni possano essere considerate pertinenti per una redazione e, soprattutto, per la loro capacità di rendere pubblici documenti altrimenti inaccessibili.