WikiLeaks può ancora essere utile al giornalismo?

Il 14 Aprile Palazzo Graziani ha ospitato un panel su un argomento particolarmente controverso: il giornalismo ha ancora bisogno di Wikileaks? Carola Frediani, giornalista di Agi, ha moderato il dibattito con Joseph Cox, Stefania Maurizi e Rahma Sghaier.

Wikileaks tra errori e meriti: la posizione di Joseph Cox

Interessante notare come il panel abbia visto un confronto tra tre posizioni, che riflettono anche il dibattito odierno su WikiLeaks, cioè il confine tra la pubblicazione indiscriminata di documenti e l’intesse pubblico generale. Andiamo per ordine. Joseph Cox – che ha aperto l’incontro – ha espresso una posizione critica nei confronti dell’organizzazione di Julian Assange, pur riconoscendone i meriti: “La mia posizione è mista. WikiLeaks ha dato un significativo contributo positivo al giornalismo”, come nel caso delle Iraq War Logs – cioè la pubblicazione di oltre 300.000 rapporti sul campo durante la guerra in Iraq, che hanno permesso di quantificare meglio il numero di civili coinvolti, le pratiche usate e molto altro – o per il suo ruolo di archivio digitale aperto nel caso Hacking Team, precursori di un tipo di lavoro che avrebbe ispirato grandi operazioni giornalistiche come i Panama Papers. Anche nel suo lavoro, Cox ha ammesso di essersi inizialmente ispirato a WikiLeaks ma di aver cambiato idea in seguito, per molti motivi. “WikiLeaks negli ultimi due anni, invece che limitarsi a rilasciare le informazioni magari con un piccolo commento, ha rilasciato sempre più dati con contesto inaccurato o fuorviante”. L’esempio recente più evidente sono i file di Vault7, fuga di notizie dalla CIA sui loro strumenti di hacking. “Wikileaks ha detto e twittato […] che la CIA può bypassare Signal e Telegram […] e l’hanno detto diverse volte. La cosa importante è che Signal, Telegram, Whatsapp, Comfy non vengono mai nominate in quei documenti”.

Secondo Cox, WikiLeaks voleva far notare il fatto che se si riesce ad hackerare un cellulare si possono ottenere i dati delle applicazioni e delle comunicazioni precedenti, ma “se stai parlando di alcune applicazioni specifiche – che hanno tutte architetture differenti – non puoi generalizzare in questo modo”, e infatti molti media hanno smentito questa interpretazione, mentre altri hanno preso la notizia per vera (WikiLeaks non ha mai smentito la dichiarazione). Il problema generale è che “ciò che decidi non includere in un pezzo o in un rilascio di dati è altrettanto importante quanto ciò che decidi infine di pubblicare” e che “quando rilasci una serie di dati molto ampio senza contesto in ogni caso ci sarà un vuoto che le persone possono riempire con qualsiasi lettura vogliono dare”, come nel famoso caso Pizza Gate. E spesso è capitato che “in una serie di pubblicazioni da parte di WikiLeaks sono state rilasciate tonnellate di dati personali di persone casuali per cui non c’è nessun tipo di interesse pubblico nelle loro vite”.

Un’altra criticità riguarda le fonti usate. Il caso è quello delle email private di John Podesta e Hillary Clinton – per cui è stato accertato il coinvolgimento di Donald Trump Junior – per cui (min 12:45)  “il fatto che le email vengano probabilmente dall’intelligence russa è una parte fondamentale della storia”. Il rischio è diventare uno strumento per operazioni geopolitiche.

La difesa di Stefania Maurizi

Stefania Maurizi ha preso le difese dell’organizzazione di Assange, dall’alto dalla sua collaborazione di 9 anni – “Ero li fin dall’inizio. Tra i vari partner, sono l’unica che ha lavorato per tutti i rilasci, eccetto che per i Saudi Files, Yemen Files, DNC e le email turche” – pur rispettando le critiche e ritenendole valide almeno in parte. Per esempio lei ritiene che abbiano sbagliato a rilasciare gli Yemen Files senza un controllo editoriale precedente. “Questo va oltre WikiLeaks perchè se rilasci documenti nella sfera pubblica, e nessuno li verifica, puoi diventare uno strumento. Per le agenzie d’intelligence, per governi etc.”

Per lei WikiLeaks ha un ruolo insostituibile perché è l’unica che può “metterci la faccia” in determinate situazioni e che non ha paura delle ritorsioni – più avanti, rispondendo a Rahma Steiger, dirà che “la tecnologia è nulla se hai un editor che uccide la storia [N.d.R per paura delle conseguenze] – e che tende a pubblicare le informazioni quando possono avere il massimo impatto possibile. Ritorsioni che poi subiscono: “Sapete citarmi un’altra compagnia d’informazione che abbia il suo direttore editoriale arbitrariamente detenuto per il suo lavoro?”.

La stessa Maurizi si è ritrovata ad affrontare dei processi volti a dimostrare la veridicità dei suoi articoli. Secondo Maurizi è sbagliata la percezione che i file non vengano controllati: “Può essere successo al massimo tre, quattro volte situazioni in cui i documenti non sono stati controllati senza i suoi media partner” – fatto che si può comunque ritenere grave, se si pensa che di solito rilasciano centinaia di migliaia di documenti per volta  – e queste situazioni non comprendono il caso Vault7.

Anche sulla questione delle fonti le posizioni sono discordanti. “Immaginiamo che la fonte sia per davvero l’intelligence russa […] se i documenti sono veri, che importa se è stata l’intelligence russa o quella vaticana o altri. Se i documenti sono veri, sono veri. Persino il diavolo può darti documenti. Dobbiamo ammetterlo: abbiamo delle fonti che sono delle ottime persone ed altre che sono dei cattivi. Abbiamo fonti con ogni tipo di motivazione […] ma la questione più importante rimane se i documenti son veri o no”. Secondo Cox, comunque, la verifica è una cosa che andrebbe specificata, per permettere ai lettori di inquadrare il contesto in modo adeguato.

Emanciparsi da WikiLeaks: piattaforme alternative di Whistleblowing.

Rahma Steiger ha lavorato in svariati progetti volti a sviluppare nuove piattaforme sicure per Whistleblowers. Anche lei ha iniziato riconoscendo i meriti di Julian Assange: “da tunisina, per me WikiLeaks ha un valore importante. La rivoluzione del 2011 è stata chiamata ‘the WikiLeaks Revolution’ dopo che dei canali diplomatici dall’ambasciata americana hanno rivelato prove schiaccianti sulla corruzione del vecchio regime […] e quei canali sono stati condivisi con i partner nei media in molti paesi”. E anche l’Hermes Center, dove attualmente lavora, si è ispirata ai loro lavori.

Steiger ha cercato di ampliare il piano, spiegando differenze tra il whisteblowing tradizionale, il data leak e il Digital Whistleblowing.

Quest’ultimo è il suo modello ideale – ed è quello che persegue tramite i progetti dell’Hermes Center come GlobaLeaks e SecureDrop. – perchè riunisce “le lezioni che abbiamo imparato da questi due modelli. É un tipo di whistleblowing digitale e sicuro. Funziona tramite l’acquisizione di una ragionevole quantità di informazioni qualificate e accessibili […] il software è modificabile pubblicamente e il processo d’investigazione per i media è più trasparente […] puoi promettere al tuo informatore che continuerai ad indagare e che processerai quell’informazione entro un certo ammontare di tempo mentre gli informatori hanno molto più controllo perchè sanno dove andranno le informazioni, chi indagherà e dove saranno pubblicate. E, ovviamente, meno rischi per le fonti”. Questo elimina inoltre il bisogno di un intermediario, poichè la fonte potrebbe parlare direttamente col giornalista.