Raccontare le migrazioni globali. Non è una crisi dell’Europa. È una crisi del mondo.

“Vorremmo cercare di spiegare assieme ad Agus Morales e Francesca Mannocchi tutto quello c’è dietro a tutti questi grandi movimenti cui noi assistiamo da decenni”. Così Maria Gianniti (inviata redazione redazione esteri TG1) ha introdotto un dibattito tanto interessante quanto utile in un particolare periodo storico come questo.

Con grande maestria e sensibilità la giornalista della Rai – dopo un’introduzione che dipinge la situazione dello spostamento di molte popolazioni sia lontane che vicine – guida il pubblico a conoscere i due ospiti che qui a Perugia nella terza giornata del Festival: Agus Morales e Francesca Mannocchi, iniziando proprio dal direttore di Revista 5W. Il giornalista spagnolo ha esordito (in lingua inglese) sottolineando l’importanza di chiamare con il proprio nome ogni singola realtà e testimonianza. “È fondamentale definire lo status in cui si trovano le persone non in maniera sommaria. Non ci sono solo i rifugiati, ma anche gli sfollati interni e poi i migranti ad esempio”, sottolinea Maria Gianniti, introducendolo. Con profonda onestà intellettuale Morales ammette di aver sottostimato il lavoro che lo ha impegnato a scrivere il suo ultimo libro: Non siamo rifugiati (Einaudi, 2018) dove racconta le tante verità che si nascondono dietro alla moltitudine di persone che decidono di lasciare il proprio luogo di origine, sia per ragioni umanitarie che per motivi economici. Dall’Africa verso l’Europa, dall’America Latina verso quella del Nord. Morales continua raccontando come da anni – seguendo le orme di chi non ha perso sola la propria terra ma anche molti diritti – abbia compreso quanto sia fragile la descrizione che si tenta di dare a fenomeni così complessi. “Mea culpa”  ammette. Un incontro in particolare, con un ragazzo somalo di 15 anni torturato in Libia, porterà il giornalista catalano a intraprendere il suo pellegrinaggio lungo le più importanti rotte migratorie del Mondo.

A prendere la parola è poi Francesca Mannocchi, giornalista e documentarista freelance esperta di Nord Africa e di Medio Oriente che da anni si occupa di migrazioni e conflitti, spiegando il complesso lavoro che si cela dietro al suo primo libro dal titolo: Io Khaled vendo uomini e sono innocente (Einaudi, 2019). Una struggente storia che narra da un punto di vista differente gli avvenimenti dei migranti in partenza dalla Libia, sarà proprio un trafficante a raccontare in prima persona gli accadimenti della storia dello Stato Nordafricano che si intrecciano con il traffico di persone. Senza un metro di giudizio che possa etichettare distintamente il bene dal male, ma tentando di restituire una realtà a cui non possiamo o non vogliamo credere. “Khaled esiste, e Khaled non è il suo vero nome. È uno dei tre trafficanti di uomini che ho incontrato in Libia e sicuramente il meno prepotente. Nella sua poca prepotenza e nella sua poca età – è mio coetaneo – mi ha posto davanti ad alcune sfide di senso”, confessa la giornalista italiana, “la scrittura di questo libro è stata una forma di autocritica e un modo per farmi domande sul nostro mestiere che sta vivendo un periodo molto complicato”. Ricollegandosi al concetto espresso precedentemente dal collega spagnolo, prosegue: “Tutto intorno a noi tende alla riduzione della complessità e io stessa, in prima persona, ho provato la sensazione di smarrimento, di non aver capito completamente un fenomeno, o che le spiegazioni che mi ero data fino a quel momento non fossero sufficienti”, concludendo infine: “Ci siamo abituati a inseguire una narrativa emergenziale, c’è sempre un’emergenza migranti”-

E proprio mentre in questi giorni in Libia le truppe del generale Khalifa Haftar sono dirette verso Tripoli per spodestare il governo di Fayez al-Serraj – creando una escalation di terrore che potrebbe precipitare trascinando ulteriormente nel baratro e nel caos la Libia – la giornalista italiana ribadisce le problematiche che accompagnano la restrizione della politica dei visti. “L’anno scorso sono arrivati da noi quasi 300 libici, un fenomeno nuovo, sembrano numeri non eccezionali, invece è un numero che racconta in maniera molto precisa quale sia la situazione a terra”, riportando poi il tragico esempio di un ragazzino di 13 anni malato di leucemia bisognoso di cure mediche specifiche ma privato del diritto di movimento.

Un altro punto che Maria Gianniti ha voluto trattare – coinvolgendo nella discussione di nuovo Morales – è stato quello della realtà africana, in particolar modo la Repubblica Democratica del Congo che il giornalista ha approfondito nel suo libro.”Un paese lontano non solo fisicamente a noi, ma distante anche per la sua storia recente” dice la giornalista italiana, un territorio tormentato da anni di conflitti che hanno determinato una infinita emergenza”. Chiede poi a Moreles cosa di più lo ha colpito dello Stato dell’Africa centrale, e lo scrittore replica: “Perché registriamo oggi questo numero di sfollati? – domanda cui dà immediatamente risposta – “Per il semplice motivo che è un conflitto interminabile come molti tanti altri nel Mondo” rispondendosi da solo. “Non è facile far passare a degli editori queste storie, cercare di raccontare delle realtà dimenticate”, interviene la moderatrice, ricordando infine il genocidio ruandese avvenuto esattamente 25 anni fa.

“Torniamo a quelli che non arrivano più, ma che ci sono e sono bloccati” interviene Maria Gianniti, rinvolgendosi nuovamente all’ospite italiana. “Vere e proprie prigioni definite centri di accoglienza, ma sono prigioni per la legge libica”: Mannocchi conosce bene questi luoghi, dal momento in cui ha avuto modo negli ultimi ultimi anni di visitarne molti. “Quanti sono questi centri di detenzione? Non è dato saperlo”, spiega. Raccontando poi: “Ho incontrato questo ragazzino nigeriano, John, di 14 anni, che aveva fatto il viaggio da solo, mi ha confidato che si sentono come degli animali in gabbia, come dei polli.”Riportando le sue stesse parole: “Tutte le sere quando mi addormento mi sento fortunato perché sono tra i vivi e non tra quelli che qua dentro stanno morendo”(. Prima della conclusione del panel c’è ancora spazio per raccogliere le ultime testimonianze dei due scrittori. “A queste storie è importante restituire la dignità dei dettagli, perché questi dettagli umanizzano la brutalità subita”, commenta Francesca Mannocchi.